ASviS

Per evitare altre catastrofi, l’Italia deve rendere operativo il Pnacc in tempi urgenti

Redazione Ansa

di Flavio Natale

In futuro saremo in grado di evitare catastrofi come quella che ha colpito l’Emilia-Romagna? Rispondere a questa domanda non è semplice, perché per farlo bisogna intercettare le linee di tendenza dei fenomeni climatici dei prossimi anni e individuare al contempo le azioni di adattamento che il nostro Paese ha messo (o dovrebbe mettere) in campo. 

Cominciamo però da un dato di fatto: questo disastro non arriva inaspettato. Già nel 2020, il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) sottolineava come in Italia, a causa di “un generalizzato aumento della temperatura media” in grado di raggiungere “+5°C entro il 2100”, si sarebbero potuti verificare fenomeni climatici preoccupanti. In particolare, diminuzione della frequenza annuale delle piogge (con conseguente intensità maggiore nei giorni più piovosi) e aumento dei giorni caldi e secchi. Praticamente, la situazione che abbiamo vissuto tra 2022 e 2023. 

Nel Rapporto di tre anni fa il Cmcc concludeva quindi che “la probabilità del rischio da eventi climatici estremi è aumentata in Italia del 9% negli ultimi vent’anni”. In particolare, il 91% dei comuni nostrani è a rischio di frane e alluvioni, e secondo il Centro oltre sette milioni di persone vivono o lavorano in aree “ad alta pericolosità”.

Nei decenni a venire è inoltre attesa una sensibile diminuzione della portata d’acqua – fino al 40% in meno nel 2080. Tutti questi fattori rendono l’Italia un “hot-spot climatico”, ovvero un’area più esposta di altre ai rischi del surriscaldamento globale.

Secondo il Cmcc, l’Italia risulta inoltre il Paese europeo con la più alta esposizione economica al rischio alluvionale (a oggi, il governo Meloni ha stanziato due miliardi di euro nel decreto legge maltempo, e altri miliardi verranno stanziati in futuro). Ma non finisce qui: per il Cmcc in uno scenario di aumento di temperatura pari a tre gradi al 2070, i costi diretti in termini di perdita attesa di capitale infrastrutturale si aggirerebbero tra gli uno e i 2,3 miliardi di euro annui nel periodo 2021-2050, e tra gli 1,5 e i 15,2 miliardi di euro annui nel periodo 2071-2100.

Per quanto riguarda l’innalzamento del livello del mare e le inondazioni costiere, nello scenario peggiore si attendono costi fino a 900 milioni di euro al 2050, che potranno raggiungere 5,7 miliardi di euro a fine secolo.

Per il settore agricolo, particolarmente esposto agli eventi estremi, è previsto un decremento di valore dei terreni valutabile tra gli 87 e 162 miliardi di euro entro fine secolo.

Fatta questa breve panoramica, capiamo ancora di più l’importanza di avere un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc) in piena operatività da subito. Il Pnacc, che dovrebbe raccogliere buona parte delle misure per permettere all’Italia di adattarsi a fenomeni climatici estremi, come quello appena verificatosi in Emilia-Romagna, è il risultato del percorso avviato dall’allora ministero dell’Ambiente e della tutela del mare (Mattm) nel 2017: dopo varie fasi di verifica e valutazione (che hanno portato a modifiche tra il 2018 e il 2022), il documento è stato pubblicato sul sito del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) alla fine dell’anno scorso. Il Piano è stato aperto a consultazione pubblica a febbraio 2023, una consultazione a cui ha risposto anche l’ASviS con un policy brief, di cui parleremo più approfonditamente tra poco.

Questo piano è stato consolidato anche sulla scia dell’approvazione, nel 2021, della nuova strategia europea per i cambiamenti climatici. La strategia indica tre priorità trasversali per assicurare un buon adattamento a tutti i livelli. La prima è “integrare l’adattamento nelle politiche macro-fiscali”, ovvero valutare i possibili impatti economici dei rischi climatici e considerare il relativo effetto nella pianificazione dei budget pubblici, in modo che i fondi siano commisurati alle necessità.

Secondo, “sviluppare soluzioni basate sulla natura (Nbs)” per adattarsi meglio. Le NbS includono alternative di vario tipo, dal ripristino di pianure alluvionali, torbiere e della vegetazione ripariale per arginare esondazione dei fiumi e frane al ripristino delle barriere coralline per attenuare l’effetto di inondazioni ed erosione costiera, fino ad arrivare al rimboschimento delle foreste.

Terzo punto per l’Ue è “intervenire con l’azione locale”, trattandosi del modo più veloce per evitare che tragedie come quella romagnola si ripetano. Esistono infatti molte aree in Italia, e in Europa, che necessitano di un intervento repentino. Sempre secondo il Cmcc, la capacita di adattamento e la resilienza interessano l’intero territorio italiano, ma “il Sud evidenzia un numero considerevole di comuni con bassi livelli di resilienza ai disastri”. Non si tratta in questi casi di una maggiore vulnerabilità ambientale (o almeno non solo), ma di una carenza di capacità di risposta istituzionale, sociale ed economica, carenza a cui bisogna rispondere per evitare di allargare la forbice delle disuguaglianze tra Nord e Sud.

Cosa fare (e cosa non fare)  

Messo il Piano sul piatto, è interessante capire che cosa manchi al Pnacc per essere efficiente e operativo. E il policy brief dell’ASviS “Dieci proposte sul Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” vuole rispondere a questa domanda.

L’analisi dell’Alleanza viene percorsa da un’idea fondamentale, che attraversa le “dieci proposte” e in qualche modo le riunisce: senza una “coerenza generale” di tutte le politiche sul clima non si va da nessuna parte. In poche parole, non si può costruire un ponte solo su un pilastro, perché crollerebbe: c’è bisogno che le politiche vadano di pari passo.

È per esempio improduttivo impiegare misure di mitigazione senza quelle di adattamento (perché si attenuerebbero gli effetti del cambiamento climatico senza essere preparati a riceverli), così come è poco efficace impiegare misure di adattamento senza quelle di mitigazione (perché gli eventi estremi diventerebbero sempre più violenti, rendendo obsoleti gli strumenti di adattamento).

Esempio di questa “coerenza generale” è la proposta dell’ASviS di integrare il Pnacc con il Piano nazionale della prevenzione, “per offrire indirizzi alla pianificazione locale, inclusi i piani d’emergenza comunale, e indicare misure specifiche per la protezione della salute dagli effetti ai cambiamenti climatici e per la stessa incolumità delle categorie più vulnerabili”. Anche qui, è un film che stiamo vedendo in questi giorni: i rischi sanitari generati dall’alluvione mostrano con chiarezza il legame tra adattamento e salute.

Altri punti richiamati dal policy brief dell’ASviS riguardano la messa in opera del Pnacc – bisogna “rendere operativo il Pnacc nei tempi urgenti della crisi climatica che i territori già sperimentano, evitando rinvii a processi attuativi complessi e lunghi, che svuoterebbero il Piano della necessaria operatività” – e la programmazione delle azioni. Su questo punto, l’Alleanza propone da un lato di effettuare “analisi di rischio e di vulnerabilità su tutto il territorio nazionale”, stress test (già richiesti nel Rapporto 2021) in grado di individuare, con il supporto degli strumenti forniti dal Cmcc, i territori maggiormente a rischio. E dall’altro, l’ASviS chiede a Governo e Parlamento di concordare “una gerarchia delle priorità delle misure di adattamento e degli interventi da attuare in funzione delle specificità dei territori e delle risorse disponibili”, incentivando e coinvolgendo settori economici e capitali privati.  

Rapidità e finanziamenti

Dalla celerità con cui queste misure verranno messe in campo – l’Intergovernmental panel on climate change registra un globale ritardo nelle misure di adattamento – così come dalla loro definizione secondo priorità, dipende la loro efficacia.

Il discorso sui finanziamenti resta centrale, anche perché “i costi dell’inazione sono più alti dei costi dell’azione”, come recita il Green deal europeo. Quanto sarebbero costati ad esempio interventi di adattamento adeguati in Emilia-Romagna? Nel complesso sarebbero stati più o meno onerosi dei fondi stanziati ora (e in futuro) per la ricostruzione?

Già nel 2021, l’allora ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili Enrico Giovannini rispondeva a questa domanda affermando che “un euro speso in resilienza climatica delle infrastrutture produce benefici complessivi pari a quasi cinque euro nel 2050”. Le risorse da investire nell’adattamento, secondo Giovannini, sarebbero dovute oscillare tra otto e dieci miliardi fino al 2030 (circa un miliardo all’anno), “più un costo operativo e di manutenzione annuale di 604 milioni di euro nello scenario 'business as usual'” per mantenere le strutture efficienti e funzionanti.

I costi, in caso di mancato adattamento, saranno elevati. Nello specifico, secondo le previsioni dell’allora Mims, nel periodo 2020-2030 la stima del danno legato alle infrastrutture sarà da 2,3 a 8,7 miliardi di euro (tra lo 0,1 e lo 0,4% del Pil), mentre nel 2050 la perdita ammonterebbe a circa 11,5-18 miliardi di euro (0,33-0,55% del Pil nel 2050).

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