ASviS

Oltre il lavoro: cosa ci aspetta dopo le “grandi dimissioni”?

Redazione Ansa

Secondo recenti dati Inps, circa 307mila persone in Italia hanno dato le dimissioni dal loro lavoro nel primo semestre del 2022 – dato mai così alto negli ultimi otto anni. Rispetto al 2021, l’Istituto ha registrato un incremento delle dimissioni del 35%, contando in un anno 1,13 milioni di persone che hanno detto addio alla loro precedente occupazione. Rispetto al 2019, ultimo anno senza Covid, l’Inps ha notato un aumento del 30% delle dimissioni, anche se quest’incremento non si è in definitiva tradotto in un fenomeno radicale di revisione e riduzione dell’offerta di lavoro: “è evidente anche dall’analisi dei tassi di ricollocazione che restano alti”, ha spiegato l'Istituto di previdenza.

Secondo l’Associazione italiana direzione personale (Aidp), il fenomeno delle dimissioni volontarie sarebbe invece più esteso, e riguarderebbe a oggi circa il 60% delle aziende italiane: le posizioni interessate dal fenomeno sono diverse (da quelle dirigenziali a quelle più impiegatizie) e coinvolgono soprattutto il settore informatico e digitale, così come le aree marketing e vendite. La fascia di lavoratori che lascia il posto con maggiore frequenza sono i dipendenti di età compresa tra i 26 e i 35 anni (70% del campione analizzato), concentrati soprattutto nel Nord Italia. I dati dati dell’Aidp (e in parte anche quelli Inps) inquadrano comunque un fenomeno di grande attualità, noto come “great resignation”, ovvero quel movimento di dimissioni volontarie che sta interessando le aree più sviluppate del mondo (Stati Uniti ed Europa in testa), dove giovani lavoratori e lavoratrici stanno lasciando il posto di lavoro alla ricerca di un impiego più soddisfacente o, in alcuni, casi, dell’emancipazione dal lavoro stesso.

Ma quali sono le ragioni dietro questa 'great resignation'?

Secondo l’Aidp, le motivazioni sono rintracciabili anzitutto nella ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e nella speranza di raggiungere un equilibrio migliore tra vita privata e lavorativa, aspetti stimolati anche dal profondo mutamento nelle modalità lavorative di questi ultimi anni – basti pensare alla rivoluzione dello smart working. Le grandi dimissioni, che hanno registrato un picco nel 2021 (negli Stati Uniti hanno interessato l’anno scorso 1,5 milioni di persone), costituiscono inoltre una testimonianza del profondo solco economico, sociale e culturale, venutosi a creare tra la generazione dei 'baby boomer', al vertice delle aziende, e i millenial (Generazione Y o Generazione Yolo, 'You live only once') e la Generazione Z.

Secondo Roberto Paura, presidente dell’Italian institute for the future (Iif), questo trend non riguarda però soltanto il periodo del lockdown: “Se vediamo il tasso di dimissioni volontarie sul lungo termine, a partire dagli anni ’90, ci rendiamo conto che esisteva una crescita importante di questo tasso di dimissioni volontarie a partire dal 2008, dall’anno in cui si è innescata la grande recessione. Questo tasso ha avuto un crollo ovviamente nel 2020, quando il mercato del lavoro è stato congelato dal lockdown, per poi ripartire più velocemente nel 2021”. Come fa notare Paura, non si tratta di una semplice “ridefinizione del mercato della domanda e dell’offerta”, ma di qualcosa di più profondo: il tasso di inoccupazione (persone che non cercano lavoro) negli Stati Uniti nei primi 20 anni del nostro secolo si è impennato, salendo dai 50 milioni di persone inattive dall’anno 2000 ha raggiunto gli 85 milioni negli anni immediatamente precedenti al Covid. “Vuol dire che esiste un numero assoluto di persone che decide di non entrare nel mercato del lavoro”. Perché? “Nel periodo del grande lockdown, nel 2020, il 40% delle persone che hanno perso il lavoro, il numero più alto dal dopoguerra a oggi, prendeva di più con i sussidi di disoccupazione rispetto al lavoro che svolgeva prima”. Questo processo di trasformazione a lungo termine è stato innescato soprattutto dai processi di automazione del lavoro, oltre che dal proliferare di occupazioni a bassissimo rendimento e produttività, con basso salario e alto livello di sostituzione, diffuse soprattutto nei settori della ristorazione, sanitario e informatico: “Si tratta di mansioni molto precarie”, prosegue Paura, “oppure 'bullshit jobs', lavori che non hanno un vero significato, che nascono con l’unico obiettivo di tenere occupate le persone”.

In più, c’è anche da dire che negli ultimi anni si è registrato un mutamento delle condizioni economiche e culturali legate all’ostentazione del benessere. Anche per via di un impoverimento collettivo, è mutata quell’idea di possesso di beni materiali caratteristica del tardo Novecento e dei primi anni Duemila: tanto per fare alcuni esempi, all’acquisto di case è stato sostituito l’affitto di case, all’acquisto di macchine l’affitto di macchine (o 'car sharing'), all’acquisto di abiti firmati un abbigliamento economico e alla moda ('fast fashion') o, nei casi più virtuosi, la slow fashion e il mondo dell’usato. Con la caduta dei sogni di opulenza sono cadute anche le cifre esorbitanti necessarie per realizzarli.  

Per rispondere alle grandi dimissioni (che in alcuni casi hanno portato anche a “grandi ripensamenti”), secondo Sd Worx le aziende dovrebbero dedicare maggiore attenzione alla formazione continua dei propri dipendenti, ai temi della sostenibilità e a un chiaro impegno in chiave sociale, così come ad assicurare agli impiegati flessibilità (in particolare sullo smart working) e stabilità economica. Vengono inoltre sempre più apprezzati dai dipendenti i bonus legati agli obiettivi (di impresa e personali) o la trasparenza nella comunicazione aziendale, così come la capacità di valorizzare leadership e politiche inclusive.

Il fenomeno delle grandi dimissioni, come si può intuire, va a toccare non solo le ore lavorative in sé per sé, ma le abitudini di vita costruite negli anni sull’etica del “duro lavoro” – che, come abbiamo già ricordato, affondano le radici anche nella dottrina calvinista, dove la dedizione al lavoro e la vita frugale vengono considerate dimostrazioni della predestinazione alla salvezza da parte di Dio, mentre l’ozio costituisce il simbolo del peccato e della dannazione.

“Le nuove generazioni”, sottolinea invece Roberto Paura, “non sono disposte come le precedenti a svolgere una mansione – quale che sia – pur di dimostrare di star lavorando. Preferiscono dedicarsi ad attività più soddisfacenti, più legate alla realizzazione personale, che magari non necessariamente producono immediatamente un reddito, e che possono essere in alcuni casi anche sostenute da forme di sussidi di disoccupazione, ma che garantiscono loro una maggiore continuità di lavoro, che il mercato del lavoro attuale non è in grado di fornire”.

Sfide all’etica del lavoro

Ma l’idea di un lavoro più agile e dai tempi più umani, in controtendenza con le direttrici del “duro lavoro” ereditate dalla seconda metà del Novecento, non vengono condivise da tutti. Il Ceo di Tesla Elon Musk, ad esempio, dopo aver twittato in questi ultimi anni messaggi come “Lavoro 16 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, per 52 settimane all’anno. E le persone ancora dicono che sono fortunato”, oppure “Potrei starmene a bere Mai Tai con delle modelle, ma invece me ne sto qui con voi”, lo scorso 31 maggio ha inviato una mail a tutti i suoi dipendenti affermando che “Il lavoro da remoto non è più accettato”. “Tutti quelli che intendono lavorare da remoto”, ha aggiunto Musk, “devono essere in ufficio per un minimo (e sottolineo *un minimo*) di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla”. “Se ci sono collaboratori straordinari per cui questo non sarà possibile, giudicherò e approverò direttamente io ogni singolo caso” ha detto l’imprenditore, concludendo che il carico di lavoro “è inferiore a quello richiesto a chi lavora in fabbrica”.

Continua a leggere su FUTURAnetwork.eu

 

di Flavio Natale

Leggi l'articolo completo su ANSA.it