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Perdita di biodiversità: abbiamo già passato una soglia pericolosa per l’umanità?

Redazione Ansa

Da futuranetwork.eu.         

di Ivan Manzo

Secondo uno studio pubblicato su Nature nel 2020, la massa di prodotti artificiali generati dall’uomo (fatta di edifici, strade, cemento…) ha superato quella naturale che racchiude l’insieme di “tutta la vita” presente sul Pianeta (parliamo di biomassa, inclusi umani, animali, microrganismi, piante e funghi). Si tratta di un dato che fa comprendere bene quanto negli anni l’attività umana sia diventata sempre più invasiva, capace di alterare l’equilibrio naturale.

Per fare qualche altro esempio, delle circa otto milioni di specie animali e vegetali conosciute sul Pianeta un milione è oggi a rischio estinzione; in alcuni casi l’uomo ha accelerato fino a mille volte il tasso di estinzione naturale.

Un elevato fattore di pressione sugli ecosistemi è l’aumento di temperatura: siamo oggi a una media di 1,1°C in più rispetto all’epoca preindustriale e ci stiamo avvicinando pericolosamente alla soglia di 1,5°C (limite da non valicare per evitare i più gravi disastri imposti dalla crisi climatica). C’è poi l’insaziabile fame di risorse descritta dall’impronta ecologica: ogni anno consumiamo risorse come se avessimo a disposizione 1,8 Pianeti.

E ancora: abbiamo già modificato il 66% degli ecosistemi marini e il 75% delle terre emerse. Se non dovessimo mettere un freno alla perdita di biodiversità, quest’ultimo dato potrebbe addirittura toccare quota 90% entro metà secolo. La comunità scientifica è stata chiara, “ora o mai più”, bisogna agire subito per invertire una tendenza che mette al rischio il benessere dell’intera popolazione mondiale.  

Ecosistemi in crisi: fin dove possiamo spingerci?

Si tratta di una domanda che assilla da un po’ di tempo gli scienziati. Negli ultimi anni ci sono stati diversi tentativi volti a definire una soglia globale da non valicare. È per questo motivo che è nata la teoria dei “confini planetari” secondo cui la Terra possiede nove processi biofisici, ognuno con un limite ben chiaro oltre il quale non possiamo spingerci: se l'umanità riesce a rispettare questi limiti sarà in grado di vivere in quello "Spazio operativo sicuro" (Sos) tale da permettere alla popolazione di prosperare; se invece i limiti venissero superati allora la Terra potrebbe entrare in uno stato (parecchio) pericoloso per l’umanità.

La ricerca condotta sul tema dallo Stockholm resilience center prosegue ma una cosa è ormai chiara: la situazione è critica e più proseguiremo sulla strada del “business as usual” più le cose si aggraveranno. A ricordarcelo è anche l’Ipbes (Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services), l’ente scientifico a supporto delle Conferenze sulla diversità biologica (Cbd) delle Nazioni unite. Nel suo ultimo studio globale, il “Global assessment report on biodiversity and ecosystem services” pubblicato nel 2019, l’Ipbes ha chiarito che la situazione mette a rischio la realizzazione dell’intera Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, dato che gli attuali trend di perdita di biodiversità impattano sull’80% dei Target contenuti in almeno otto Obiettivi di sviluppo sostenibile (si fa riferimento agli SDGs 1, 2, 3, 6, 11, 13, 14 e 15).

Sono state infatti rilevate dallo studio - che ricordiamo rappresenta la più grande valutazione sullo stato di salute degli ecosistemi fatta dopo il Millennium ecosystem assessment del 2005 - importanti sinergie tra la natura e gli Obiettivi relativi all'istruzione, alla parità di genere (fattori come l'insicurezza legata al possesso di un terreno o di una determinata risorsa hanno un impatto maggiore sulle donne e sulle ragazze), alla riduzione delle disuguaglianze e alla promozione dei processi di pace e di giustizia.

Perdita di biodiversità: impatti sull’Agenda 2030. Fonte: rapporto Ipbes

“Siamo di fronte a un declino senza precedenti della diversità biologica”, sottolinea il lavoro di ricerca, “dal 1900 a oggi nella maggior parte degli habitat terrestri è diminuita di almeno il 20% l’abbondanza di specie autoctone, minacciate non solo da fattori climatici e dalla pressione esercitata dall’uomo ma anche dal fenomeno delle specie aliene invasive”. Quest’ultime, spesso dimenticate dal mondo dell’informazione e dal processo decisionale, rappresentano un forte pericolo per i nostri ecosistemi, basti pensare che sono state capaci di generare danni economici per circa 1288 miliardi di dollari dal 1970 al 2017, fa notare la ricerca “High and rising economic costs of biological invasions worldwide” (marzo 2021) pubblicata su Nature. Un valore enorme che, per esempio, “supera di 20 volte il totale dei fondi disponibili per l'Organizzazione mondiale della sanità e le Nazioni unite messe insieme”.

Inoltre l’Ipbes prevede che le tendenze che minano le funzioni vitali degli ecosistemi peggioreranno in molti scenari a causa di un mix di fattori (diretti e indiretti) come la rapida crescita della popolazione umana e i modelli di produzione e consumo non sostenibili. Al contrario, scenari basati su un uso sostenibile delle risorse, anche in risposta all’aumento demografico, ci mostrano che un futuro diverso è possibile.

Biodiversità: impatti presenti e futuri

“Mentre molte regioni nel mondo dovranno affrontare un ulteriore calo della biodiversità, quelle tropicali dovranno far fronte a particolari rischi combinati dalla crisi climatica, dal cambiamento d'uso del suolo e dallo sfruttamento della pesca. Si prevede che la biodiversità marina e terrestre nelle regioni boreali, subpolari e polari diminuirà principalmente a causa del riscaldamento, del ritiro dei ghiacciai marini e della maggiore acidificazione degli oceani. L'entità degli impatti e le differenze tra le regioni sono molto maggiori negli scenari con un rapido aumento dei consumi o della popolazione umana rispetto agli scenari basati sulla sostenibilità. Agire immediatamente e simultaneamente sui molteplici fattori indiretti e diretti ha il potenziale per rallentare, arrestare e persino invertire alcuni aspetti della biodiversità e della perdita dell'ecosistema”, ricorda sempre l’Ipbes, che fornisce stime anche sui trend futuri.

Viene per esempio calcolato che il valore economico dei contributi offerti alla specie umana dalla natura terrestre in America sia superiore a 24 mila miliardi di dollari all'anno, ma quasi due terzi - il 65% - di questi sono in calo (il 21% in forte calo). Entro il 2050 in America la crisi climatica diverrà il fattore che inciderà di più sulla biodiversità, insieme alle modifiche d’uso del suolo. “In media le popolazioni di specie sono oggi circa il 31% più piccole rispetto al momento dell'insediamento europeo. Con i crescenti impatti della crisi climatica, unita ad altri fattori di pressione antropica, questa perdita potrebbe raggiungere il 40% entro il 2050”.

Anche in Africa è sempre più minacciata la biodiversità locale: entro il 2100 potrebbe scomparire più della metà delle specie di uccelli e mammiferi africani, e potrebbe essere registrato un calo del 20-30% della produttività dei laghi africani, con una significativa perdita di specie vegetali. Inoltre si stima che circa 500 mila chilometri quadrati di terra africana siano già stati degradati dallo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, dall'erosione, dalla salinizzazione e dall'inquinamento, con conseguente perdita significativa dei servizi ecosistemici offerti dalla natura alle persone. L'attuale popolazione africana conta circa 1,25 miliardi di persone, ma questa è destinata a raddoppiare a 2,5 miliardi entro il 2050, motivo per cui si attendono impatti sempre maggiori.

Guardando alle valutazioni sullo stato di conservazione delle specie e dei tipi di habitat europei, nell’Unione solo il 7% delle specie marine e il 9% dei tipi di habitat marini mostrano uno "stato di conservazione favorevole". Inoltre il 27% delle valutazioni delle specie e il 66% delle valutazioni dei tipi di habitat mostrano uno "stato di conservazione sfavorevole". In generale, le foreste dell'Asia-Pacifico, le acque dolci interne, le zone umide e le zone costiere sono identificate dall’Ipbes come gli ecosistemi più vulnerabili nei prossimi anni.

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di Ivan Manzo

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