ASviS

FOCUS. Italia ancora senza Pnacc. Quali politiche di adattamento per la crisi climatica?

Redazione Ansa

Da futuranetwork.eu

“Negli ultimi vent’anni, abbiamo già assistito a cinque crisi di siccità nel bacino del Po. Quella di quest’anno è però più grave, perché partiamo già da una condizione di incredibile severità idrogeologica”. Queste le parole di Meuccio Berselli, segretario generale dell'Autorità di bacino distrettuale del fiume Po e neodirettore di Aipo (Agenzia interregionale per il fiume Po), recentemente intervenuto a un webinar sul tema organizzato dalla Casa dell’agricoltura. 

Da dicembre a gennaio, infatti, secondo i dati riportati da Aisam (Associazione italiana di scienze dell’atmosfera e meteorologia), l’Italia ha ricevuto l’80% di pioggia e il 60% di neve in meno rispetto alla media stagionale, facendo dell’inverno 2021-2022 il sesto più siccitoso degli ultimi 63 anni. Questa siccità ha influito significativamente su molte arterie fluviali italiane, tra cui il Po, che ha raggiunto i livelli più bassi da trent’anni a questa parte e, come ricorda Berselli, “è responsabile del 40% del Pil nazionale (tramite l’agricoltura) e del 55% della produzione idroelettrica”. A questo proposito, Coldiretti ha commentato che “la siccità è diventata la calamità più rilevante per le coltivazioni italiane”.

“Il cambiamento climatico ci dice che vanno messe in campo azioni di adattamento il prima possibile, perché non possiamo permettere che zone intere della nazione restino senza risorse idriche adeguate e, dunque, senza reddito”, ha dichiarato Berselli.

Già il rapporto del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) “Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia” uscito nel 2020, metteva in guardia contro “un generalizzato innalzamento della temperatura media” della Penisola che, nello scenario peggiore, avrebbe potuto raggiungere “+5°C entro il 2100”. Secondo il Cmcc, in futuro è attesa una diminuzione della frequenza annuale delle piogge, con un’intensità maggiore nei giorni più piovosi. In tutti gli scenari considerati, inoltre, aumenterà in Italia il numero di giorni caldi e secchi.

Questi dati hanno portato il Centro a concludere che “la probabilità del rischio da eventi climatici estremi è aumentata in Italia del 9% negli ultimi vent’anni”, con il 91% dei comuni nostrani a rischio per frane e alluvioni, e oltre sette milioni di persone che vivono o lavorano in aree considerate “ad alta pericolosità”. Sempre secondo il Cmcc, per effetto dei cambiamenti climatici è attesa nei decenni a venire una sensibile diminuzione della portata d’acqua – fino al 40% in meno nel 2080. Tutti questi fattori rendono l’Italia un “hot-spot climatico”, ovvero un’area più esposta di altre ai rischi del surriscaldamento globale, generando conseguenze economiche potenzialmente disastrose.

L’Italia risulta ad esempio il Paese europeo con la più alta esposizione economica al rischio alluvionale. In uno scenario di aumento di temperatura pari a tre gradi al 2070, i costi diretti in termini di perdita attesa di capitale infrastrutturale si aggirerebbero tra gli uno e i 2,3 miliardi di euro annui nel periodo 2021-2050, e tra gli 1,5 e i 15,2 miliardi di euro annui nel periodo 2071-2100. Per quanto riguarda l’innalzamento del livello del mare e le inondazioni costiere, nello scenario peggiore si attendono costi fino a 900 milioni di euro al 2050, che potranno raggiungere 5,7 miliardi di euro a fine secolo. Per il settore agricolo, particolarmente esposto a riduzioni nella resa a causa di fenomeni siccitosi e di scarsità idrica, è previsto un decremento di valore dei terreni agricoli valutabile tra gli 87 e 162 miliardi di euro entro fine secolo.

In un Paese che si trova già in profonda crisi climatica, le misure di adattamento – che non agiscono sulla mitigazione della temperatura, ma sulla preparazione e il contrasto agli effetti del surriscaldamento globale – sono dunque indispensabili. A ricordarlo è anche la seconda parte del Rapporto “AR6” dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), che si concentra sull’importanza di politiche di adattamento ambiziose per “evitare una crescente perdita di vite umane, biodiversità e infrastrutture”.

Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici

Quando in Italia si parla di adattamento si parla di Pnacc. L’acronimo sta per Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, un documento la cui elaborazione è stata avviata nel maggio 2016 – sulla base della Strategia nazionale di adattamento al clima (Snac) del 2015 e sui suoi rapporti scientifici del 2014 – e la cui attuazione è ancora lontana da venire. Questo Piano, identificando sei differenti macroregioni climatiche italiane, fornisce un’analisi del rischio basata sulla stima della capacità di adattamento e dei potenziali impatti dei fenomeni metereologici estremi a livello locale, “proponendo una selezione delle azioni preferibili per i 18 settori già precedentemente identificati dalla Snac nel 2015”, ha spiegato Sara Venturini, membro del comitato scientifico di Italian climate network.

La bozza di questo piano è stata presentata nel 2017: da quel momento in poi, però, l’iter di approvazione si è arenato. In un recente seminario interno sulla giusta transizione ambientale tenuto dall’ASviS, alla domanda sullo stato di avanzamento del Pnacc, Roberto Danovaro, professore ordinario di Ecologia presso l’Università politecnica delle Marche nonché membro della Commissione per la valutazione strategica del Pnacc, ha risposto: “Non è stato ancora dato nessun parere dalla Commissione, e presumo che passerà ancora del tempo prima che possa essere accettato. Tenete conto che quel documento è stato scritto nel 2015, ed era basato su dati precedenti che ora sono cambiati: questi tempi lunghissimi non sono compatibili con una politica efficace”.

Anche lo stesso Rapporto ASviS 2021 sottolinea l’urgenza di un solido Piano di adattamento ai cambiamenti climatici per il futuro del Paese. Secondo l’Alleanza, il Piano dovrà beneficiare di possibilità di finanziamento pubblico, politiche macro-fiscali strutturate, valutazione dei danni ai bilanci pubblici che possono derivare dall’inazione o dall’inadeguata preparazione e risposta ai cambiamenti climatici. Considerando inoltre che le azioni per l’adattamento si attueranno materialmente sui territori, secondo l’Alleanza i comuni e le regioni dovranno effettuare stress test sulle vulnerabilità climatiche locali entro un congruo termine – ovvero il 2022.

continua a leggere su futuranetwork.eu

Leggi l'articolo completo su ANSA.it