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Una via d’uscita dall’ossessione per il lavoro

Redazione Ansa

“Non c’è nulla di naturale nell’ossessione per il lavoro”. James Suzman, antropologo, direttore di “Anthropos Ltd.” e autore di numerosi saggi, è recentemente intervenuto su Domani sul tema del futuro del lavoro. Lo studioso è partito da una riflessione: nonostante la campagna di vaccinazione, la spinta per un ritorno alla “normalità” lavorativa pre-Covid sembra sempre meno condivisa. “La pandemia ha dimostrato che una cultura del lavoro più flessibile non conduce dritti alla rovina, come molti sostenevano prima dei lockdown”. Per comprendere però le radici di questa “cultura del lavoro” è utile, per Suzman, fare qualche passo indietro nel passato.

Nel saggio Affluence without abundance Suzman ha studiato approfonditamente la vita della comunità degli Ju’hoansi, i gruppi boscimani di cacciatori-raccoglitori che discendono direttamente dagli antenati vissuti nell’Africa meridionale, agli albori della nostra specie.

Uno dei temi principali dibattuti da Suzman è che, per il 95% della nostra storia, gli esseri umani sono stati cacciatori-raccoglitori. Queste comunità lavoravano 15 ore a settimana (e i Ju’hoansi lo fanno ancora, anche se relegati in territori marginali, dopo il contatto brutale con le economie occidentali), mentre il resto del tempo veniva dedicato allo svago. Suzman ricorda addirittura che un uomo boscimano, dopo avergli insegnato a cacciare nel deserto del Kalahari, aveva provato a comunicargli la gioia di tornare a casa e godere di ciò che si è catturato: “il cuore è felice, le gambe pesanti e la pancia piena”. I nostri antenati, sottolinea sempre Suzman, credevano fortemente nell’ambiente che li circondava, e non si preoccupavano di conservare il cibo, perché la natura gliene offriva in abbondanza. “Anziché vivere per lavorare, lavoravano per vivere”, conclude l’antropologo, aggiungendo che la loro vita non era affatto “brutta, brutale e breve” come ci immaginiamo. 

Poi arrivò, dodicimila anni fa, l’agricoltura, e con essa il concetto del duro lavoro come virtù e dell’ozio come vizio. Le tecniche agricole, come ricorda Suzman, una volta affermatesi si rivelarono incredibilmente più produttive della semplice “caccia e raccolta”. Ma il sistema agricolo, allo stesso tempo, “portava con sé rischi molto maggiori, anche perché le società agrarie tendevano rapidamente a crescere fino ai limiti consentiti dalla capacità produttiva”. Queste civiltà dipendevano inoltre da poche culture sensibili, e qualsiasi calamità naturale poteva generare effetti catastrofici, mandando a monte il lavoro di mesi o anni. La soluzione, a quel punto, era una sola: “lavorare di più”.

“Le cose cambiarono quando si scoprì che i motori alimentati da combustibili fossili potevano fare, rispetto ai fragili corpi umani alimentati dal cibo, un lavoro infinitamente maggiore”, ricorda sempre Suzman. Le macchine, dunque, avrebbero dovuto in un certo qual modo emancipare l’agricoltore dalla fatica. Nelle visioni più utopistiche questo sarebbe stato un atto di libertà per l’essere umano. John Maynard Keynes, negli anni Trenta, scriveva che il progresso tecnologico ci avrebbe portato, nel 21esimo secolo, verso una “terra promessa” dove gli uomini non avrebbero dovuto lavorare più di 15 ore a settimana, perché i bisogni basilari sarebbero stati soddisfatti. Oscar Wilde, nel suo saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1891), immaginava una società socialista del futuro in cui i lavori più monotoni sarebbero stati compiuti dalle macchine, mentre gli esseri umani sarebbero stati liberi di diventare artisti o gestire la vita a proprio piacimento.

Fin dall’inizio dell’era industriale, le macchine hanno dunque avuto la funzione di emanciparci dal lavoro. Eppure, oggi viviamo un’epoca di alta tecnologizzazione, e non abbiamo mai lavorato così tanto. Ciò ci dice che il lavoro, come conclude Suzman, “è ormai il centro della nostra vita”.


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Perché, però, siamo così fissati con il lavoro? 

Uno dei saggi più citati sulla questione è L'etica protestante e lo spirito del capitalismo del sociologo Max Weber (originariamente pubblicato in due differenti volumi, nel 1904 e 1905). Questo libro mette in relazione le affinità tra capitalismo e calvinismo, vedendo nel secondo una precondizione culturale fertile per far germinare lo “spirito” del primo.

Nelle società precapitalistiche il guadagno veniva infatti devoluto principalmente verso fini non economici, che spaziavano dall’incremento di influenza politica, al mecenatismo, al consumo fine a sé stesso, all’ostentazione del lusso. Nello spirito capitalistico, invece, il conseguimento di questi obiettivi è secondario: il profitto non deve essere goduto ma reinvestito. Dunque, non esiste piacere tratto dal profitto se non il profitto stesso. Se questa dinamica ci può sembrare lontana e distante, basti pensare alla fatica che alcune volte facciamo a staccarci dai nostri obiettivi lavorativi: la soddisfazione derivante dall’obiettivo non include anche il riposo che ne consegue, ma l’obiettivo stesso.

Per Max Weber, questa logica affonda le radici nel calvinismo (e prima ancora nel luteranesimo). Martin Lutero, tra il 1512 e il 1514, elaborò la dottrina della giustificazione per fede: l’uomo è peccatore e non può guadagnarsi il regno dei cieli tramite le opere buone (giustificazione per opere, alla base della fede cattolica), e il favore di Dio non si può ottenere, ma viene concesso per benignità a coloro che manifestano la fede in Lui. Questo ribaltamento di prospettive stabiliva un rapporto diretto tra Dio e gli uomini, rendendo superflua la funzione del sacerdote, sia come intermediatore che come strumento di Dio (sacerdos vuol dire “colui che dà il sacro”).

Secondo i cattolici la dottrina luterana getta l'uomo nella disperazione. Mentre il cattolico, tramite i sacramenti, può presumere di avere ottenuto il perdono ed essere in grazia di Dio, il luterano non dispone di segni che gli possano assicurare la salvezza (ma può solo sperarlo e crederlo). Diversamente da Lutero, però, Calvino riterrà che il fedele, attraverso la dedizione al lavoro e a una vita frugale e retta, possa dimostrare – a sé stesso come agli altri – di essere predestinato alla salvezza. Il lavoro diventa dunque un segno della grazia di Diomentre restare nell’ozio stigma del peccato. L’obiettivo della propria esistenza diventa dunque non il piacere derivante dall’impegno, ma l’impegno in sé stesso, alla ricerca di una continua quanto disperata attestazione di predestinazione. Conseguentemente, qualsiasi piacere deve essere rinchiuso nell’intimo della vita privata, mentre fuori si deve far sfoggio di un’ascesi intramondana.

In questi ultimi anni, inoltre, è andato a mutare il rapporto tra lavoratori e società che li retribuiscono. “Nell’era del Fordismo”, dice la giornalista americana Sarah Jaffe su Vice, “i lavoratori americani sindacalizzati timbravano il cartellino in entrata e in uscita. Non dovevano fingere di amare il loro lavoro: era spesso ripetitivo, ma pagava dignitosamente e permetteva a ognuno di avere una vita decente”.

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