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Non possiamo lasciare ai giovani il compito di cogliere le mele più difficili

Redazione Ansa

Cingolani sul Corriere ha avvertito: «Non sarà bellissimo». Sviluppare entro nove anni tutta quell’energia dal solare per esempio significa tappezzare di pannelli oltre 200 mila ettari, quasi il 2% della superficie coltivata in Italia. Significa piantare pale eoliche letteralmente ovunque, compromettendo un paesaggio secolare e la risorsa del turismo. Eppure quel che colpisce è la distrazione. Fuori dalla cerchia degli specialisti, nel Paese non solo non se ne parla. Non c’è nessuna consapevolezza che queste scelte sono di fronte a noi.

Federico Fubini, sul Corriere della Sera, prende spunto dall’intervista del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani allo stesso giornale, per fare qualche calcolo. Per rispettare l’obiettivo europeo di abbattere le emissioni di gas serra del 55%, abbiamo bisogno di installare 7 gigawatt di produzione da fonti rinnovabili all’anno. Allo stato attuale delle tecnologie, abbiamo a disposizione solo il solare e l’eolico, ma se i calcoli che Fubini presenta sono giusti e si dovesse affidarsi soprattutto alla installazione di pannelli fotovoltaici, dovremmo ricoprire i tetti e i campi del Paese con una superficie di pannelli pari a oltre 30 metri quadri per italiano. Ma di questa sfida immane, che Cingolani giustamente segnala con toni preoccupati, non c’è adeguata coscienza.

Va detto che la tendenza a mettere i problemi sotto il tappeto non riguarda solo l’Italia. La Corte costituzionale tedesca ha bollato come insufficienti gli sforzi del governo di Berlino per arrivare alla neutralità climatica entro il 2050. In pratica, ragiona la Corte, anche abbattendo del 55% le emissioni entro il 2030, l’onere che viene scaricato sulle nuove generazioni è eccessivo e ingiusto. L’Economist ha spiegato così la sentenza:

La combinazione dei due impegni affida al futuro il maggior peso della decarbonizzazione: un onere ancora più pesante se si considera che le mele che pendono dai rami più bassi sono le più facili da cogliere.

Fuor di metafora, il problema è il seguente: la prima fase della riduzione delle emissioni non è semplice, come abbiamo visto, ma almeno sappiamo come fare. Ci sono però attività per le quali allo stato attuale delle tecnologie non siamo in grado di stabilire come arrivare a “emissioni zero”. Da questo punto di vista il concetto di “neutralità climatica” che l’Europa persegue è ambiguo.

L’obiettivo “emissioni zero” non impegna un Paese a raggiungere un livello specifico di emissioni, ma a sviluppare “emissioni negative” su una scala tale da pareggiare tutto quello che continuerà a emettere. Questo rende pressoché impossibile la quantificazione della riduzione di emissioni di gas serra tra il 2030 e il 2050, in certi casi 2060 (il riferimento è all’impegno cinese, Ndr) e quindi rende impossibile valutare il peso che viene posto a carico delle nuove generazioni.

Come si ottengono le “emissioni negative”? Il metodo che conosciamo meglio è l’estensione delle aree boschive perché gli alberi riassorbono CO2. Estendere i “polmoni verdi” dell’Europa è un processo lento e complesso, necessario ma insufficiente. Per il resto, tutto dipende da nuove tecnologie ancora agli inizi: le tecniche per sucking up carbon, riassorbire carbonio dall’atmosfera, o quelle per impedire che venga diffuso nell’aria, attraverso la carbon capture, con l’idea di stoccare l’anidride carbonica nel sottosuolo, magari nei giacimenti di fossili esauriti, sempre che questo non provochi movimenti sismici, come temono alcuni esperti.

Occorre dunque un grande investimento tecnologico, con risultati a medio e lungo termine e non si sta facendo abbastanza in questa direzione. Al meraviglioso sforzo globale delle imprese e dei governi che ha consentito la messa a punto in pochi mesi dei vaccini contro il Covid, non fa riscontro un analogo impegno di ricerca per combattere le emissioni di gas serra. Per le imprese si tratta di una ricerca di dubbia e differita redditività; per i governi di un impegno finanziario di cui la maggioranza dell’opinione pubblica non avverte ancora l’urgenza. 

In ogni caso, serviranno scelte condivise molto difficili da raggiungere, anche perché costose. Commenta Stefano Agnoli, sempre sul Corriere:

A quanto e a che cosa, nel caso dell’emergenza climatica, siamo disposti a rinunciare? E quanto costa, se ha un prezzo, la giustizia ambientale tra generazioni? Negli Stati Uniti, ancora ai tempi di Obama, si era sviluppato il concetto del «costo sociale del carbonio». Un valore monetario del danno netto per la società conseguente all’emissione di una tonnellata di CO2 in un determinato anno. Un costo da far pagare a cittadini e sistema industriale che includa gli impatti del clima sulle future generazioni in termini di differente produttività agricola, effetti sulla salute, danni per disastri naturali, e persino conflitti e migrazioni ambientali. Certo, ci sono diversi modi per calcolarlo, diversi tassi di sconto da applicare, e l’amministrazione Trump era riuscita nell’impresa di ridurlo tra 1 e 7 dollari la tonnellata, quindi a renderlo inefficace, mentre secondo i calcoli del Climate Impact Lab dovrebbe essere più correttamente fissato a 125 dollari. Forse troppo, soprattutto in tempi di post-pandemia. Sono problemi complessi, è vero, e «mettere a terra», come si dice, i principi generali è sempre il compito più complicato. Ma sarebbe anche una bella sfida da proporre alla Cop 26 anglo-italiana di Glasgow il prossimo novembre.

Considerando che ogni italiano, per riscaldarsi o spostarsi, o attraverso i prodotti che consuma, provoca in media l’emissione di sette tonnellate di CO2 all’anno, si potrebbe calcolare un onere annuo di circa 700 euro pro capite, 42 miliardi che dovrebbero essere reimpiegati per affrontare tutti gli aspetti della crisi climatica, dalla ricerca agli interventi sociali per la “giusta transizione”, dalla promozione delle rinnovabili al risparmio energetico, sempre guardando all’impatto della crisi climatica sulle prossime generazioni.

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