ASviS

Dobbiamo definire meglio la sostenibilità economica del “futuro sostenibile”

Redazione Ansa

Come avete fatto a combinare questo casino? E perché ve ne siete accorti così tardi?

Magari con toni più gentili e apparentemente più rispettosi, ma quando in un webinar, incontriamo un gruppo di giovani per descrivere la situazione attuale e la necessità di costruire quel futuro di cui l’Agenda 2030 è il primo passo, alla fine questa domanda viene fuori. “Voi adulti ci dipingete una situazione molto difficile per il Pianeta e per il futuro dell’umanità; ci parlate di impegni che ci devono coinvolgere per portare il mondo su un sentiero di sviluppo sostenibile. Noi stiamo già facendo la nostra parte, scendendo in piazza con Greta Thunberg, documentandoci sui problemi e parlandone sui social, magari anche modificando i nostri comportamenti sbagliati e facendoli cambiare alle nostre famiglie; ma ci volete dire come mai siamo a questo punto? Non ve ne siete accorti prima? E perché non avete reagito?”.

Quando questa domanda capita a me, cerco di rispondere che certamente la mia generazione ha commesso errori. Anche se il monito del Club di Roma sui limiti dello sviluppo fu lanciato nel 1972 e da allora si sono succeduti studi e riunioni internazionali che man mano delineavano le minacce alle quali andavamo incontro, quasi tutti noi, me compreso, non abbiamo messo queste minacce al centro delle nostre preoccupazioni e delle nostre scelte collettive. Eravamo troppo coinvolti nei rischi della Guerra fredda e dell’olocausto nucleare, poi troppo speranzosi che con il crollo dell’Urss si potesse arrivare alla “fine della Storia”, cioè a un periodo di pace e prosperità per tutti, troppo fiduciosi nei meccanismi del mercato e nei progressi della tecnologia che avrebbero risolto i problemi del futuro.

E i politici?

Erano condizionati dagli atteggiamenti dell’elettorato. Qualcuno era apertamente negazionista sul cambiamento climatico o comunque non lo considerava un problema prioritario; molti pensavano che i drammi del sottosviluppo si sarebbero risolti da soli, con un po’ di aiuto da parte dei Paesi ricchi. In ogni caso era molto difficile affrontare questi temi di medio e lungo termine senza andare a toccare molti interessi e perdere voti.

Insomma, i problemi finivano sempre sotto il tappeto. Quando nel 2012 con Gianluca Comin scrissi per Rizzoli “2030 La tempesta perfetta – Come sopravvivere alla grande crisi”, che era una raccolta di dati e allarmi che avrebbero dovuto indurci a cambiare le nostre priorità, partecipammo a numerosi dibattiti, fummo accolti con simpatia e interesse, ma in sostanza (almeno io, non so Gianluca) ci sentimmo come dei marziani che sorprendevano l’uditorio “parlando d’altro” rispetto ai temi d’interesse generale. Da allora per fortuna tutto è cambiato, con il varo dell’Agenda 2030, l’impegno delle nazioni del mondo sui 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, ma purtroppo il contesto si è fatto molto più difficile, la tempesta perfetta sempre più vicina.

Abbiamo capito, siete stati disattenti; i politici sono stati poco coraggiosi. Ma i grandi interessi? Che ci dite del ruolo delle imprese, in particolare delle multinazionali, di tutti quelli che avevano il potere di “remare contro” e l’hanno fatto?

Qui si entra nella parte più difficile del dialogo, quella che di solito viene accolta con più scetticismo. Certamente c’è stata una coalizione di operatori economici che cercavano di frenare la transizione, come i produttori di carbone che finanziavano Donald Trump o alcune società petrolifere che facevano il “doppio gioco”, dichiarandosi sempre più verdi nelle intenzioni, ma cercando di valorizzare al massimo i loro giacimenti. Allo stesso modo, ci sono grandi imprese che si presentano con un volto attento ai grandi temi sociali, ma per anni hanno chiuso un occhio sullo sfruttamento della manodopera, magari anche del child labor, per le loro produzioni dislocate in Asia. Spiego però che il quadro è molto più complesso.

La globalizzazione ha consentito a miliardi di persone di uscire dalla povertà estrema, anche se altri, soprattutto nelle classi medie dei Paesi più sviluppati, hanno pagato un prezzo. Oggi le strategie delle imprese stanno cambiando, per i loro stessi interessi, perché molti capi azienda (basta vedere i dibattiti che ogni anno si svolgono a Davos) hanno capito che il mondo di domani sarà diverso. Anche la finanza, a cominciare dai grandi fondi d’investimento, punta sempre più sulle imprese Esg (Environmental, Social, Governance) e privilegia chi opera in settori green: per chi gestisce grandi patrimoni, è meglio acquistare azioni di società che producono auto elettriche o pale eoliche, anziché rimanere arroccati su settori redditizi in passato, ma che non danno più garanzie.

Numerose cronache e analisi che riportiamo sui nostri siti asvis.it e futuranetwork.eu riferiscono di questa tendenza. Testimoniano che si sta passando da uno stakeholder capitalism, nel quale l’unico obiettivo è fare profitti e distribuire dividendi agli azionisti, a uno shareholder capitalism, che tiene in considerazione tutti i portatori d’interesse nell’azienda: consumatori, dipendenti, territori nei quali si produce.

Già, ma sempre di capitalismo si tratta, di una globalizzazione incontrollata, di una finanza priva di controlli internazionali. Come facciamo a crederci?

Spiego l’impegno dell’ASviS. Ricordo che puntiamo a un nuovo modello di sviluppo, che deve conciliare le dinamiche di mercato con importanti interventi degli Stati e con regole internazionali più stringenti. L’Agenda 2030 già indica questa strada. Negli ultimi mesi, anche sulla spinta della crisi che stiamo vivendo, le riflessioni e le iniziative in questa direzione si sono moltiplicate, grazie anche a Papa Bergoglio. La più recente e la più clamorosa di queste iniziative si è svolta ad Assisi, con le giornate dedicate a “The economy of Francesco”, una grande mobilitazione internazionale rivolta soprattutto ai giovani per dettare regole nuove nel funzionamento dei sistemi economici.

Il problema è come passare dalle parole ai fatti. Gli economisti ci dicono che la sostenibilità si basa sulla salvaguardia di quattro tipi di capitale: ambientale, sociale, umano ed economico. Dei primi tre si parla molto, anche se con risultati insufficienti: sappiamo che cosa si dovrebbe fare per la crisi climatica, la biodiversità, la lotta all’inquinamento. Siamo consapevoli delle grandi sfide necessarie per proteggere il contesto sociale, una popolazione di quasi otto miliardi di persone, “senza lasciare nessuno indietro”. Sappiamo che la difesa del capitale umano significa sanità, scuole, parità di genere, tutela dei diritti per tutti. Ma non abbiamo provato realmente a delineare il sistema economico che consenta davvero di conciliare tutti questi obiettivi.

Definire la “sostenibilità economica” significa rispondere a una serie di interrogativi che mi azzardo solo ad accennare senza pretendere di avere le risposte, ma con la consapevolezza che si tratta di un nodo fondamentale, non solo per realizzare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, ma per offrire ai giovani che ci pongono quelle domande delle risposte credibili e in definitiva per costruire con loro un mondo davvero sostenibile.

Il primo nodo riguarda le caratteristiche della “crescita”. Noi parliamo di “sviluppo sostenibile” per differenziarci dal termine “crescita” comunemente usato dagli economisti. Lo consideriamo fuorviante, perché “crescita” significa una maggior produzione di beni e servizi, che trova un limite nella scarsità delle risorse e nelle condizioni attuali del Pianeta. Al tempo stesso sappiamo che di crescita economica in una certa misura abbiamo bisogno. Ne hanno bisogno i Paesi meno ricchi del nostro, che devono migliorare le condizioni di vita. Ne abbiamo bisogno anche noi in Europa, ancora di più dopo questa crisi, per distribuire risorse adeguate alle fasce a rischio della popolazione, ma anche per ripagare nel tempo l’enorme debito sovrano, contratto da molti Paesi tra i quali primeggia il nostro. Certo, il debito si può anche abbattere con l’inflazione, ma sappiamo che alla fine l’inflazione è la tassa più ingiusta per le fasce più deboli, come ci ricordano varie vicende dei Paesi del Sud America.

Contro lo scetticismo di una parte degli economisti, ci battiamo per dare importanza politica agli indicatori del benessere collettivo, come per esempio il Bes italiano o gli indicatori che misurano il percorso verso la realizzazione degli SDGs nel mondo. I negazionisti, i difensori a oltranza del Prodotto interno lordo come unico parametro di progresso, temono invece che la valorizzazione di questi indicatori alternativi sia un grimaldello per introdurre il concetto di “decrescita felice”, che tradotto vorrebbe dire “accontentiamoci di quello che abbiamo, anzi riduciamolo e facciamo pure la faccia contenta”. È una questione mal posta, come abbiamo cercato più volte di spiegare. Resta il fatto che il concetto di crescita economica sostenibile, della sua dimensione, qualità e distribuzione, deve essere approfondito, studiando meglio le implicazioni a livello macro e micro della transizione alla green economy alla quale l’Europa giustamente ci impegna.

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di Donato Speroni

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