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Il Covid ha reso ancora più difficile la battaglia sui diritti

Redazione Ansa

I cinesi sono felici ma gli occidentali non lo vogliono ammettere. Questa sorprendente affermazione è il tema di un articolo del Global times, il quotidiano in lingua inglese del governo di Pechino.

Le persone e le organizzazioni che sostengono che la popolazione cinese non è felice non sono in grado di fornire risultati di sondaggi convincenti. Hanno cercato in tutti i modi di sfruttare emozioni marginali e retorica radicale su internet come se si trattasse delle voci prevalenti, nel tentativo di provare i loro stereotipi sulla Cina. (...) Alcune élite occidentali non sopportano di vedere che i cinesi sono felici. Scelgono invece di nascondere i loro problemi e il loro disappunto maledicendo la Cina o anche modificando i risultati dei sondaggi d'opinione. Sfortunatamente per loro, questo non li aiuterà a rovesciare il tavolo. Facendo parte dell'Occidente che una volta era così forte non si devono lasciar andare a queste degenerazioni senza precedenti.

La fonte della disputa è un sondaggio di Ipsos, contestato da altre fonti, su 27 Paesi nel quale si afferma che nel mondo post-Covid i cinesi risultano i più felici, anche perché in molti altri Paesi la pandemia ha fatto arretrare la soddisfazione individuale.

È comunque difficile dire che tutti siano felici in Cina. L’Economist ha pubblicato la scorsa settimana una inchiesta sugli Iuguri, la minoranza musulmana che abita la regione dello Xinjiang e che viene sottoposta a una spaventosa “rieducazione forzata”,  senza che il resto del mondo se ne occupi, per non turbare i buoni rapporti commerciali col grande Paese asiatico.

La vicenda degli Iuguri e le altre manifestazioni repressive attuate dal regime di Xi Jinping non sono le uniche violazioni dei diritti umani, che si stanno moltiplicando in tutto il mondo, anche a seguito del Covid. Lo stesso Economist pubblica un ampio articolo. che elenca molteplici esempi, sotto l’esplicito titolo: “Contro la crudeltà non esiste vaccino – la pandemia ha eroso la democrazia e il rispetto per i diritti umani”.

La pandemia è stata terribile non solo per la salute, ma anche per il corpo politico. Freedom house, un think tank di Washington, ha contato 80 Paesi nei quali la qualità della democrazia e del rispetto dei diritti umani si è deteriorata dopo l'inizio della pandemia. Questa lista include sia dittature che sono diventate più cattive, sia democrazie dove gli standard si sono abbassati. “Il Covid-19 ha stimolato una crisi della democrazia in tutto il mondo”, sostengono Sarah Repucci e Amy Slipowitz di Freedom house. Secondo i loro calcoli, la libertà globale aveva già cominciato a erodersi prima della crisi finanziaria del 2007- 2008, ma il Covid-19 ha accelerato questa tendenza in molti modi.

Gli esempi riportati dalla rivista inglese sono molteplici: dal deputato di opposizione del Kenya arrestato perché si era permesso di distribuire cibo agli affamati nella sua costituency, ai lockdown imposti dal primo ministro indiano NerendraModi e dal suo partito confessionale induista in modo più stringente nei quartieri abitati dai musulmani, dal bando deciso dal governo del Nicaragua a tutte le notizie che “provocano allarme, paura o ansietà” agli arresti dei medici e dei giornalisti egiziani che si sono permessi di criticare la gestione della pandemia da parte del governo del Cairo.

Tuttavia, come scrive Freedom house, l’erosione dei diritti umani era già cominciata prima della pandemia. Si pensi a quanto sta accadendo in Turchia, con l’incarcerazione di molti giornalisti e oppositori del governo di Recep Tayyip Erdogan, e anche alle polemiche che si sono aperte nel Consiglio europeo, e ora anche nel Parlamento europeo, sulla opportunità di finanziare attraverso il fondo Next Generation Eu Paesi in cui avvengono violazioni dei diritti umani da parte dei governi. Come scrive il Post:

Gli esperti di stato di diritto, le principali organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani e persino le autorità indipendenti dell’Unione Europea concordano che diversi paesi membri dell’Est – soprattutto Ungheria e Polonia, ma anche Repubblica Ceca, Bulgaria e Romania – abbiano problemi enormi nel rispettare l’indipendenza della magistratura e dei tribunali, nel garantire la trasparenza riguardo le misure prese dal governo, e nel proteggere i diritti di minoranze e oppositori politici. La Commissione ha avviato da tempo delle procedure di infrazione contro Polonia e Ungheria su singoli provvedimenti o prese di posizione – per esempio il trattamento disumano nei confronti dei migranti in Ungheria, o le nomine politiche dei giudici in Polonia – senza riuscire a influenzare più di tanto le decisioni dei rispettivi governi.

È anche difficile immaginare che l’Onu possa ergersi a difesa dello stato di diritto. La sua Commissione per i diritti umani è composta da 47 Stati suddivisi equamente per area geografica, che rimangono in carica per tre anni. Ne fa parte, fino al 2021, anche l’Italia, ma vi siedono Paesi come l’Eritrea, considerati così oppressivi da indurre l’Europa ad accordare quasi automaticamente il diritto di asilo ai suoi cittadini che fuggono. Il rinnovo di 15 membri, avvenuto il 13 ottobre, non ha migliorato la situazione, considerando che tra i nuovi ingressi ci sono Cuba, Russia e Cina, mentre è stata bocciata la candidatura dell’Arabia Saudita. Nella complicata architettura del Palazzo di vetro, esiste anche un United nations human rights committee, nell’ambito dell’ufficio del Commissario Onu per i diritti umani. Si tratta di 18 esperti teoricamente indipendenti, in carica per quattro anni per sovraintendere al rispetto dell’International covenant on civil and political rights, il trattato internazionale istituito nel 1966 e ratificato da 173 Paesi, che dovrebbe impegnare i firmatari

a rispettare i diritti civili e politici degli individui, inclusi il diritto alla vita, la libertà di religione, la libertà di parola, la libertà di riunione, i diritti elettorali e il diritto a un equo trattamento giudiziario.

Anche quest’organo, attualmente presieduto da un egiziano, non ha lasciato tracce significative. Le uniche iniziative da segnalare sono quelle dell’Alto commissario ai diritti umani Michelle Bachelet, ex presidente del Cile, che lancia appelli in larga misura inascoltati.

Ci siamo soffermati anche su questi aspetti organizzativi per evidenziare quanto sia difficile, nella politica internazionale, far rispettare il Goal 16:

Pace, giustizia e istituzioni solide - Promuovere società pacifiche e più inclusive per uno sviluppo sostenibile; offrire l'accesso alla giustizia per tutti e creare organismi efficienti, responsabili e inclusivi a tutti i livelli.

dell’Agenda 2030 sottoscritta cinque anni fa da tutti i Paesi del mondo.

C’è una via d’uscita? In parte la soluzione risiede in una armonizzazione delle legislazioni nazionali, come auspicato dalla giurista Paola Severino nel suo dialogo con il direttore dell’Ansa Luigi Contu e il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini nel corso della prima puntata di “Voci sul futuro”, il programma quotidiano andato in onda durante il Festival dello Sviluppo Sostenibile. Ma è chiaro che non ci si arriverà senza una grande mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale. Oggi sembra un’utopia, ma il mondo si muove in fretta e le cose potrebbero cambiare.

di Donato Speroni 

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