ASviS

Realizzare una transizione giusta, ordinata e condivisa

Redazione Ansa

Il concetto di “giusta transizione”, necessaria per abbattere le emissioni di gas climalteranti senza aggravare gli squilibri sociali, si è ormai imposto. Alla “just transition” l’Europa destina oltre 40 miliardi di euro, senza parlare dei fondi del Next generation EU, di cui il 37% va destinato alla lotta contro il cambiamento climatico. Non a caso, il gruppo di lavoro su clima ed energia dell’ASviS un anno fa aveva messo a punto un decalogo condiviso da sindacati, associazioni ambientaliste e imprese e sta per assegnare un premio destinato a chi meglio ha operato per favorirla, mentre nei giorni scorsi le 11 associazioni imprenditoriali aderenti all’ASviS, in occasione di una delle manifestazioni del Festival dello sviluppo sostenibile in corso in questi giorni, hanno approvato un documento in undici punti per favorire, appunto, la “giusta transizione”.

“Il passaggio a un nuovo ordine energetico è vitale, ma sarà disordinato” scrive l’Economist, in una inchiesta di copertina dedicata al “Potere nel 21mo secolo”. La tesi è chiara. La transizione sta accelerando perché si diffonde la percezione dell’altissimo costo della crisi climatica. Secondo il giornale inglese, il contributo delle rinnovabili alla fornitura di energia primaria potrebbe passare dall’attuale 5% al 25% nel 2035 e al 50% nel 2050, grazie soprattutto alla crescita di solare ed eolico. L’effetto di questa accelerazione sarà di spostare il potere dai “petroStati” agli “elettroStati”, con conseguenze molto rilevanti. Da un lato, ne saranno sconvolti i bilanci dei Paesi fornitori come Venezuela e Arabia Saudita: Riad ha un equilibrio di bilancio basato su un prezzo del greggio di 80 dollari, mentre il prezzo attuale è di circa la metà ed è difficile che possa aumentare. Il great disruptor, cioè il climate change, cambierà anche il mondo delle imprese, obbligando a risposte strategiche veloci e difficili.

D’altra parte, la transizione alle rinnovabili mette in una posizione di privilegio la Cina, che oggi produce il 72% dei moduli solari, il 69% delle batterie a ioni di litio e il 45% delle turbine necessarie per l’eolico. Non solo: Pechino controlla anche buona parte delle attività di raffinazione dei minerali essenziali per l’energia pulita, come il cobalto e il litio. Gli altri Paesi però stanno reagendo: “L’Europa ospita grandi progetti di sviluppo dell’energia eolica e solare”, scrive l’Economist, che ricorda anche che Enel è il più grande investitore al mondo in progetti di energia rinnovabile nei Paesi in via di sviluppo, e sottolinea l’impegno della Commissione europea, ribadito nel discorso di Ursula von der Leyen sullo stato dell’Unione del 16 settembre, a investire massicciamente nella transizione energetica.

Comunque, la transizione sarà messy (la traduzione migliore è: “incasinata”), anche perché dovrà svolgersi in contesto mondiale già sconvolto dalla pandemia e dai rigurgiti di nazionalismo che rendono difficile la collaborazione internazionale. In questi giorni sono stati pubblicati vari studi che segnalano come il Covid-19 abbia aumentato le disuguaglianze, rendendo più difficile il raggiungimento di vari obiettivi dell’Agenda 2030. Su futuranetwork.eu abbiamo sintetizzato alcuni di questi studi in un “tema della settimana”. Ma gli allarmi continuano: una recente indagine di Unicef e Save the children ha segnalato che, a seguito della pandemia, 150 milioni di bambini sono ricaduti nella “povertà multidimensionale”: non hanno cioè un accesso adeguato all’educazione, all’alloggio, a una alimentazione corretta. Anche il futuro vaccino contro il Covid potrebbe aggravare le diseguaglianze se, come ammonisce Bill Gates, non sarà immediatamente reso disponibile ai Paesi e alle fasce di popolazione più povere.

Come giustamente scrive su Avvenire Gianni Bottalico del Segretariato ASviS, in vista del Tempo del Creato, che le Chiese d’Europa celebreranno il 4 ottobre,

Non di decrescita c'è bisogno, ma di cambiamento del modello di sviluppo, in modo armonioso, capace di generare nuovo benessere diffuso, una robusta ed estesa classe media, senza la quale non può esservi vera democrazia e un reale progresso ma solo l'aumento di nuove e sempre più inaccettabili forme di disuguaglianza.

Ma questo modello di sviluppo richiede consenso e disponibilità ad accettare cambiamenti di comportamento e sacrifici “per non lasciare indietro nessuno”, non solo per un principio di giustizia, ma anche perché senza sostenibilità sociale la nostra civiltà potrebbe collassare ancor prima di essere investita in modo ancor più devastante dagli effetti del cambiamento climatico.

Il consenso, però, è una merce rara, in un periodo nel quale si diffonde la sfiducia per le istituzioni democratiche. In questi giorni ha fatto rumore, in Italia, la dichiarazione di Beppe Grillo di non credere più nei parlamenti. Ne è derivata una interessante discussione nella quale è intervenuto, tra gli altri, Enrico Letta, in veste di studioso più che di politico. Su futuranetwork.eu abbiamo dato spazio a questo dibattito con una intervista ad Alberto Martinelli, uno dei più affermati studiosi di politica nel nostro Paese. In effetti, a livello internazionale la discussione su questo tema è cominciata da molto tempo perché, come hanno sottolineato anche Letta e Martinelli, sono in corso da anni sperimentazioni per rafforzare la democrazia rappresentativa con iniziative che coinvolgono i cittadini: le cosiddette Citizens’ Assemblies, che però si distinguono dalle forme di democrazia diretta perché chi vi partecipa si impegna a studiare i problemi ascoltando le diverse tesi e ha il tempo per confrontarsi e maturare una opinione.

La scelta dei partecipanti a queste assemblee normalmente avviene per sorteggio, ma spesso si cerca di rispettare un criterio che rispecchi genere, educazione, classe sociale, come in un sondaggio statistico. È ancora l’Economist, già prima della sortita di Grillo, a invitare a prendere seriamente queste forme di deliberative democracy.

Le assemblee dei cittadini sono spesso promosse come un modo di rovesciare la tendenza al declino della fiducia nella democrazia che è stato fortemente avvertito nell'ultimo decennio in buona parte del mondo più sviluppato. Lo scorso anno la maggioranza della gente interpellata in America, Gran Bretagna, Francia e Australia, così come quella di molti altri paesi ricchi, ha dichiarato che, comunque andavano le elezioni, in realtà non cambiava nulla. I politici (questa è la lamentela più comune) non hanno la capacità o l’interesse pei capire la vita e le preoccupazioni della gente normale. Le assemblee dei cittadini possono rimediare a questa sensazione. Non sono un sostituto per l'attività quotidiana di formazione delle leggi, ma sono un modo per rompere lo stallo quando i politici non riescono a affrontare temi importanti. Da queste esperienze si ricava che la gente ordinaria è molto ragionevole. Un ampio esperimento deliberativo per quattro giorni negli Stati Uniti ha ammorbidito le posizioni dei Repubblicani sull'immigrazione; i Democratici sono diventati meno desiderosi di promuovere uno stipendio minimo. In modo ancora più sorprendente, due assemblee dei cittadini in Irlanda, che sono durate 18 mesi, hanno mostrato che il Paese nonostante le sue profonde radici cattoliche era molto più liberale dal punto di vista sociale di quanto non pensassero i politici. Le assemblee a grande maggioranza hanno raccomandato la legalizzazione dell'aborto e dei matrimoni dello stesso sesso.

Il cambiamento climatico è un argomento che si presta molto bene ad assemblee di questo tipo, perché l’opinione espressa dai cittadini ordinari, dopo aver realmente approfondito il tema, può far capire ai politici quanto si possono spingere avanti in una politica di mitigazione e adattamento. Probabilmente scoprirebbero che i cittadini sono più disposti ad affrontare i necessari sacrifici, pur di tutelare il futuro loro e dei loro figli, di quanto pensano i partiti tradizionali.

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di Donato Speroni

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