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Questa settimana: la pandemia rivela le fragilità di questo sistema

Redazione Ansa

Vorrei avere la professionalità e la bravura di Manuela Fugenzi, la giornalista photo editor che ha lavorato con Enrico Giovannini e con me alla stesura del volume “Un mondo sostenibile in 100 foto” edito lo scorso anno da Laterza e liberamente accessibile da parte di professori e studenti, per scovare e proporvi alcune foto molto più efficaci delle parole.

La prima viene dall’India: un fiume di persone che abbandona Delhi (22 milioni di abitanti) per tornare a piedi nelle aree rurali di provenienza, perché almeno nei villaggi sperano di trovare solidarietà e forse ridurre i rischi da Covid-19. L’isolamento è impossibile negli slums dove milioni di famiglie vivono ammucchiata in tuguri con gabinetti in comune.

E ancora (questa gira sui social), il breve filmato di un capannone dove decine di operaie asiatiche gomito a gomito, con le loro macchine da cucire, producono mascherine al ritmo di una ogni pochi secondi, mentre i loro bambini razzolano sul pavimento.

C’è poi l’immagine delle donne africane e dei ragazzini che fanno chilometri per portare un secchio d’acqua a casa. Foto non nuove, ma che oggi assumono tutt’altro significato. Come ha fatto notare Enzo Nucci in un servizio su Radio3 Rai, dove non c’è acqua corrente e non ci sono soldi per comprarla dalle autobotti, è inutile raccomandare di lavarsi spesso le mani.

Possiamo affiancare a questa immagine anche quelle di migliaia di uomini e ragazzi che nelle megalopoli del Sud del mondo devono comunque uscire e vagare per la città perché sono alla ricerca quotidiana di lavoretti senza i quali non portano a casa il cibo della giornata. E ancora, quella della polizia di Nairobi in assetto di guerra contro la folla che per disperazione si rifiuta di rispettare le restrizioni. Alla fine restano sul terreno più morti, compresi donne e bambini, di quelli da Coronavirus in tutto il Kenya.

Infine, terribile nella sua simbologia, la foto del miliziano libico che imbraccia il suo inseparabile mitra e combatte. Ma indossa la mascherina anticontagio, non si sa mai. 

Possiamo sperare che, come si ipotizza, il Covid-19 perda forza nei climi caldi. Guai se non fosse così, perché davvero si potrebbe assistere a una strage di proporzioni bibliche. Del resto, il volume del Club di Roma su “I limiti dello sviluppo” del 1972 conteneva una proiezione della popolazione mondiale che raggiungeva il suo picco attorno agli anni nostri per poi cominciare a decrescere.

Ci sono vari libri che hanno ipotizzato un futuro molto diverso dal mondo che abbiamo vissuto fino a ieri, ma forse rivelatori di quello che i sopravvissuti affronteranno domani, se non ripensiamo urgentemente non solo il modello economico, ma l’insieme dei rapporti sociali. Mi limito a citarne tre e scusate se vado a memoria perché sono tutti nella mia casa di campagna, attualmente per me irraggiungibile. Il primo, ben noto, è quello di Isaac Asimov “Catastrofi a scelta” (Mondadori). Nel 1979, il padre della fantascienza avanzava varie ipotesi sullo sterminio dell’umanità, dalla collisione con un asteroide alla morte del Sole, ma tra le altre esplorava anche possibili variazioni di temperatura letali per l’uomo, il moltiplicarsi dei maremoti e degli tsunami, il progressivo avvelenamento dell’acqua e dell’aria. Oltre a una catastrofe nucleare, sempre ben presente nella letteratura in quegli anni di guerra fredda, ma che tutt’oggi costituisce una grave minaccia per la proliferazione dei detentori di armi atomiche.

L’autore del secondo libro è mio fratello, Gigi Speroni, anche lui giornalista, purtroppo scomparso nel 2010. Gigi ha scritto una ventina di libri prevalentemente di carattere storico, ma uno solo di fantascienza: “La notte del Duemila”, pubblicato da Bietti nel 1974, ormai introvabile. La storia si svolge la sera di venerdì 31 dicembre 1999. Mentre la popolazione dei Paesi ricchi festeggia il nuovo millennio con luminarie e champagne a fiumi, stormi di elicotteri disseminano in tutta l’Africa un gas indolore ma letale, sterminando così “gli Inerti”, cioè le popolazioni che per ragioni demografiche, culturali e politiche non hanno raggiunto lo stesso livello di civiltà, ma che in futuro potrebbero minacciare l’accesso alle risorse sempre più scarse del Pianeta.

'Una cinica congiura, razionalmente ineccepibile e giustificata dalla realtà di una situazione che non sembra avere altri sbocchi, nel contesto di una società costituita da miliardi di cittadini “democraticamente nazisti”... Un mondo allucinante nella sua perfezione, alla ricerca angosciosa di uno spazio vitale. Costi quel che costi, tanto da giustificare qualsiasi bassezza: l’importante sarà tacitare la propria coscienza con un formalismo legalitario'.

Quello di Gigi voleva essere un grido di allarme, oggi possiamo dire che non è andata così, per fortuna. Ma la tentazione di abbandonare alla loro sorte milioni di persone, salvo respingerli con le armi se tentano di invadere il mondo più ricco per sopravvivere, non è poi così lontana.

Il terzo libro ci proietta nel futuro e si chiama “2052 – scenari globali per i prossimi quarant’anni” pubblicato in Italia dalle Edizioni Ambiente con la collaborazione del Wwf. Lo ha scritto Jorgen Randers, un cultore di "future studies" norvegese che nel 1972 fu tra gli autori del volume del Club di Roma. Quarant’anni dopo, nel 2012, ha riesaminato la situazione con proiezioni per altri 40 anni, appunto fino al 2052. Randers non è né un tecno-ottimista né un catastrofista, ma ci presenta un mondo in lento inesorabile degrado e conclude con consigli pratici. Alcuni scontati (“andate a vivere dove la vostra casa non sarà minacciata dall’innalzamento dei mari”)altri sorprendenti, come questo: “insegnate ai vostri figli ad amare i videogiochi più della Natura che non ci sarà più”. Non è certo questo il futuro che vogliamo, ma la sorte dei ragazzi che in questi giorni sono chiusi in casa e trovano il loro unico svago davanti a uno schermo ce lo fa minacciosamente riaffiorare.

Insomma, il Coronavirus si chiama pandemia proprio perché colpisce tutto il mondo e le ferite che lascerà saranno molto profonde, soprattutto tra i più deboli, come testimonia anche l’allarme lanciato da Save the children. Sarà compito di noi privilegiati far sì che alla fine la crisi non ci lasci con masse di disperati senza speranza e con generazioni senza prospettive di vita decente.

Non mi sono dilungato su queste riflessioni per evitare di parlare dell’Italia, della quale sappiamo così tanto dai nostri media, che mi sembra stiano facendo un grande lavoro. Piangiamo i nostri morti, ci commuoviamo per l’eroismo del personale sanitario e non solo, ci rallegriamo per i tanti gesti di solidarietà. Vediamo qualche spiraglio per una lenta uscita dal contagio, ci preoccupiamo giustamente di evitare il tracollo dell’economia, ma scopriamo anche che c’è una parte del Paese dove il sistema economico è così fragile da far precipitare milioni di famiglie nell’incertezza non solo sugli acquisti della quarta settimana del mese, ma addirittura della prima o della seconda. Tutti dicono che bisogna fare presto, nonostante i contrasti politici, i tempi della burocrazia e l’impossibilità di far girare a pieno regime certe strutture arrugginite della pubblica amministrazione nazionale e locale, ma non è facile.

Su questi temi l’ASviS sta portando il proprio contributo di analisi e di proposte. Le analisi servono per valutare l’impatto della crisi, i punti di “resilienza trasformativa” sui quali puntare per evitare di ritornare indietro, finita la crisi, con maggiore debolezza e senza una prospettiva. Tra le proposte, quella che l’Alleanza ha varato col Forum Disuguaglianze Diversità per intervenire sulla legislazione in itinere al fine di renderla più efficace a favore delle fasce più deboli della popolazione. Abbiamo anche presentato un’analisi del Decreto “Cura Italia” nel contesto degli Obiettivi di sviluppo sostenibile per confermare alla luce dei fatti l’importanza di mantenere l’Agenda 2030 come riferimento dell’azione politica di questo decennio.

Il punto che lega tutti questi discorsi è l’Europa, i passi verso una maggiore intesa nell’affrontare la situazione sono lenti, con uscite infelici come quelle di Christine Lagarde e della stessa Ursula van der Leyen, subito corrette. Ma se si mettono in fila gli atti concreti della Commissione e della Banca centrale europea si ha l’impressione che l’Unione faccia di giorno in giorno un passo indietro e due avanti. Vedremo nei prossimi giorni, con l’Eurogruppo di martedì 7 e il Consiglio europeo di giovedì 9, se questa impressione sostanzialmente positiva sui progressi dell’Europa sarà confermata. Certo gli avanzamenti sono troppo lenti rispetto all’incalzare della crisi, non solo per i popoli, le imprese, le strutture sociali del Continente, ma per dare forza al ruolo globale che l’Europa e solo l’Europa può oggi svolgere. Dobbiamo sempre ricordarci, come ha detto Romano Prodi a Che tempo che fa, che “L’Europa è rimasta ormai l’unica àncora della democrazia mondiale”.  L’unica leva, aggiungiamo, per salvare il progresso verso uno sviluppo sostenibile, coniugato con i diritti di tutti.

 

di Donato Speroni

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