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Maidan dimenticata in fretta lascia posto al business

Tra caos e morte in Ucraina, mentre l'Europa accresce i rischi

13 marzo, 14:13
(di Pierluigi Franco) (ANSA) - TRIESTE - Ammainate le bandiere simbolo, lo spirito di Maidan sembra essere stato completamente dimenticato.

Dimenticata Iulia Timoshenko, il cui volto campeggiava in ogni angolo di Kiev, dimenticato ogni motivo di quella rivolta, se si esclude l'odio ormai viscerale per i cittadini russofoni un tempo fratelli di bandiera, l'Ucraina sembra essersi consegnata completamente a quegli oligarchi che sono riusciti a fare man bassa della politica. Affari al posto di democrazia e democrazia confusa con gli affari. Intanto i cittadini non sanno bene cosa aspettarsi in un Paese gestito senza grande attenzione per Pil, debito e bilancio.

Mentre a Est, tra una tregua e l'altra, si combatte e si muore, tutto sembra ruotare attorno al capitale privato, al potere economico di pochi, con il settore energetico che seguita a dominare il panorama fino a far venire l'acquolina oltreoceano.

Così una confusa battaglia europea rischia ogni giorno di accendere un nuovo e pericoloso fuoco nello scacchiere internazionale. La continua presenza di Kerry a Kiev è emblematica. Eppure gli Usa sono molto lontani, ben sette fusi orari, mentre l'Ue è a pochi chilometri.

Nel marasma ucraino a nulla sono valse le raccomandazioni della prima ora dei più attenti diplomatici, con l'Osce in prima fila, tutte rivolte alla prudenza sulle possibili derive di Maidan.

Derive che alla fine sono arrivate, con l'Unione europea a dimostrare la sua mancanza di capacità diplomatica e l'assoluta assenza di una politica autonoma in grado di tutelare gli interessi dei Paesi di riferimento. Encomiabili sono in tal senso le iniziative di Francia e Germania, ma sembrano anche riportare indietro nel tempo e cancellare lo spirito stesso dell'Ue. Trovato il cattivo di turno, la causa è stata sposata in fretta senza valutare le conseguenze. Di ragionamento ed equilibrio diplomatico neppure l'ombra. Così in Paesi come l'Italia, ad esempio, le sanzioni imposte a Putin sembrano aver fatto più male alle proprie aziende che ai russi, messi invece in crisi dal ribasso del petrolio. Come darsi una martellata sui piedi. E viene da chiedersi se oggi, in politica estera comunitaria, conti più il volere di Polonia e Paesi baltici, sempre terrorizzati dal ricordo sovietico, o quello dei Paesi del Trattato di Roma del 1957 o, almeno, dei Paesi che a Maastricht lanciarono l'Unione europea nel 1993.

Sta di fatto che l'Ucraina odierna rischia di debordare i suoi effetti nefasti nel resto d'Europa, almeno se da parte occidentale non si torna ad analizzare con prudenza gli avvenimenti, a prendere le distanze da entrambe le parti e a recuperare così un credibile ruolo di mediazione.

Difficile che ciò venga dagli Usa. Intanto perché l'America non rischia l'arrivo di oltre un milione di profughi in fuga dal bacino del Donec infiammato dalle bombe, disperati che il mondo sembra ignorare mentre attraversano il fiume a 25 gradi sotto zero e a cui è difficile dare sistemazione nell'inverno russo.

In secondo luogo perché, nella logica del business che supera ogni altra logica, ciò che accade nel Donbass sembra essere più un affare di interessi, di giacimenti e corridoi anziché una pericolosa escalation che potrebbe portare l'Europa indietro di molti anni. Quella stessa Europa che ha dimenticato in fretta le offese, come quella dell'intercettazione della diplomatica statunitense Victoria Nuland, 'Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs' presso il Dipartimento di Stato e inviata da Obama in Ucraina per gestire la situazione. Si è subito dimenticato quel "fuck the Eu" pronunciato da Nuland al telefono con l'ambasciatore Usa a Kiev, che invece si preoccupava del rapporto con l'Unione europea. Inquieta pensare, come mette in rilievo Fulvio Scaglione su Limes, che mentre si muore sotto le inutili bombe e molte aziende europee accrescono le loro difficoltà, un gruppo di signori arricchitisi oltremisura nel giro di pochi anni stia lavorando torbidamente nel post-Maidan per continuare ad accrescere le proprie ricchezze sfruttando parvenze di uomo politico, ben lungi da quella di statista. E il campo di azione non è Ue: è russo o americano. Se infatti la stella non sembra più risplendere per Rinat Akhmetov, l'uomo più ricco di Ucraina e 88/o uomo più ricco del mondo secondo la classifica di Forbes, che alla Russia vendeva gran parte del suo acciaio prodotto in Donbass, le cose stanno andando diversamente per Ihor Kolomoisky, al secondo posto nella classifica dei ricchi d'Ucraina e diventato dopo Maidan governatore di Dnipropetrovsk.

Fanno capo a lui le società che, in prospettiva, potrebbero trarre grandi vantaggi dal futuro dell'Ucraina. Tra queste spicca la Burisma Holdings che, pur essendo basata a Cipro, è una "società indipendente di petrolio e gas che opera in Ucraina", come si legge nel sito web ufficiale. Ma sempre sul sito web di Burisma si scopre che del board della società, già autorizzata a commercializzare gas e già titolare di diritti di sfruttamento di shale gas in Ucraina, fanno parte dall'aprile del 2014 nientemeno che Hunter Biden, figlio del vice presidente Usa Joe, e Devon Archer, uomo di fiducia del segretario di Stato americano John Kerry di cui è stato 'senior advisor' durante la campagna presidenziale del 2004. Nel maggio 2013 è invece entrato il banchiere Alan Apter, mentre dal gennaio 2014 (in piena Maidan) è entrato nel board di Burisma un altro nome eccellente della politica, l'ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski.

Parlando lo scorso ottobre alla televisione ucraina 'Canale Uno', Kolomoisky ha reso noto (ha "confessato", secondo Tass) di avere ben tre cittadinanze: ucraina, cipriota e israeliana.

Nulla di strano in una nazione nella quale, pur esistendo una legge che vieta la doppia cittadinanza, ben tre ministri, tra i quali due ministri chiave del panorama economico, hanno ottenuto la cittadinanza ucraina il 2 dicembre 2014, lo stesso giorno della nomina al dicastero, con decreto d'urgenza. E' cittadina statunitense il ministro delle Finanze Natalie Jaresko, nata a Chicago e cresciuta negli Usa dove ha fatto carriera a Washington all'interno del Dipartimento di Stato, per il quale era stata inviata 22 anni fa proprio in Ucraina. E' invece cittadino lituano il banchiere Aivaras Abromavicius, ministro dell'Economia, mentre georgiano è il ministro della Sanità Alexander Kvitashvili, che ha studiato e lavorato negli Usa prima di diventare ministro in Georgia quando era presidente Mikheil Saakashvili. Dunque, a tre stranieri neo-ucraini tre dicasteri chiave, tenendo presente che anche la Sanità è un grosso affare e in Ucraina rappresenta uno dei settori a più elevato tasso di corruzione. E da poco il gruppo degli ucraini di adozione si è accresciuto con la nomina dello stesso Saakashvili a consigliere del presidente Poroshenko. Un incarico che ha sbalordito e spiazzato il mondo diplomatico. L'ex presidente georgiano, infatti, vive da tempo rifugiato negli Usa, che rifiutano di consegnarlo alla Georgia dove è ricercato per 'abuso di potere' durante la sua presidenza e altri presunti reati.

Ma Petro Poroshenko, il presidente, la nomina a Saakashvili l'ha fatta. Qualcuno dice che "l'ha dovuta fare". D'altra parte Poroshenko è un altro oligarca di peso. Ma il suo caso muove in un contesto di grande equilibrismo: lui gli affari li aveva (e li ha, tra un sequestro e l'altro) anche in Russia. Tutti lo conoscono come il 're del cioccolato' perché la sua 'Roshen' è al 18/o posto tra le più grandi imprese dolciarie del mondo. Un colosso che, con circa diecimila dipendenti, conta fabbriche oltre che in Ucraina (quattro), Ungheria (una) e Lituania (una), anche in Russia (ben due). E sono molti i russi che negli ultimi anni hanno consumato tavolette e cioccolatini Roshen. Un mercato importante, così come importanti sono sempre state le due fabbriche di Lipek, città industriale dai tempi di Pietro il Grande. Nel pieno della diatriba, le autorità russe hanno prima vietato la vendita di cioccolato Roshen per presunta presenza di benzopirene. Poi hanno disposto la chiusura delle fabbriche, portando un grave danno alle casse del presidente ucraino. Poi, tra un incontro e l'altro in quel di Minsk, gli impianti sono stati riattivati e i russi hanno ripreso con gioia a mangiare cioccolato Roshen. Ma non si sa ancora per quanto.

Tutto questo mentre l'Europa, minacciata anche a Sud dai subbugli islamisti, continua a correre rischi sempre più grandi.

Eppure qualche voce di buon senso si è alzata, pur inascoltata.

Come il modello 'Alto Adige' ventilato dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Oppure una svolta in senso federalista che risolverebbe non pochi problemi, tenendo conto della storia e delle diverse anime dell'Ucraina. Ma, forse, questi percorsi diplomatici non piacciono troppo a chi guarda a Kiev in chiave affaristica. E a Est si continua a morire, mentre a Ovest l'Europa accresce i suoi pericoli. (ANSA).

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