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Le due Giuditta e Oloferne di Artemisia, a Roma insieme

Quella di Capodimonte affianca a Palazzo Braschi dipinto Uffizi

foto e video di Daniela Giammusso. Testo di Nicoletta Castagni. ROMA

 ROMA - La prima versione della 'Giuditta che decapita Oloferne', dipinta da Artemisia Gentileschi nel 1617, e ancora più cruda e vibrante della successiva realizzata per Cosimo II dei Medici nel 1620, arriva a Roma per essere allestita nella grande mostra che celebra a Palazzo Braschi la straordinaria pittrice seicentesca. Custodita al Museo di Capodimonte, l'opera è stata affiancata a quella conservata agli Uffizi, esposta al Museo di Roma già dall'apertura della rassegna 'Artemisia Gentileschi e il suo tempo' (il 30 novembre), in un confronto diretto di rara suggestione e assai di rado proposto al pubblico. Lo splendido capolavoro è giunto nel tardo pomeriggio, protetto dalla sua specifica cassa a prova di rischio, che è stata aperta all'ingresso del palazzo, ai piedi dello scalone monumentale. Di grandi dimensioni (159 per 126 centimetri), il dipinto è stato portato a braccia dalle maestranze fino al primo piano, nella sala, forse la più bella della mostra, dove era appunto allestita la Giuditta degli Uffizi. Mentre le esperte del Museo di Roma e di Capodimonte controllavano ogni parte dell'opera (cornice, pittura, supporto) adagiata su un tavolo apposito, illuminato da luce radente, i tecnici hanno spostato gli altri due quadri della parete per dare al nuovo arrivato la posizione centrale. Un lavoro svolto con grande attenzione, durato ben due ore, che alla fine ha visto prendere vita un inedito raffronto di incredibile intensità tra due opere di Artemisia particolarmente ispirate e iconiche. Del resto la Gentileschi, in realtà pittrice grandissima, è soprattutto conosciuta e amata quale simbolo di donna capace di riscattarsi da violenze e pregiudizi, che ben si rispecchia nel soggetto di Giuditta che decapita Oloferne. Proprio nella prima versione è ancora oggi palpitante la partecipazione dell'artista a quel clima di vendetta crudele, spietata, ma giusta con cui essa ammanta la vicenda biblica, per secoli interpretata in modo assai diverso. Giuditta era una giovane vedova ebrea, le cui gesta sono narrate nell'Antico Testamento, una figura di cui si appropria la storia dell'arte fin dall'epoca medioevale come simbolo della Virtù che trionfa sul Male. E in tali vesti la ritraggono non solo i decoratori dei codici miniati, ma anche i maestri della Rinascenza, facendo di lei una donna angelicata, incontaminata pur con le mani macchiate di sangue. Una visione che già Caravaggio comincia a scardinare con il suo crudo realismo e che scompare del tutto qualche decennio dopo con Artemisia Gentileschi, capace di trasformare l'eroina di Betulia in una donna vendicatrice, spinta da sentimenti molto terreni, forte e risoluta. E' nel 1617, durante il primo soggiorno fiorentino, finalmente libera da Orazio, padre-padrone, che Artemisia elabora su una commissione probabilmente della gentildonna Laura Corsini questa composizione di fortissima drammaticità, studiata in ogni dettaglio per restituire il compiacimento di una vendetta esemplare. La scena è in primo piano, e le tre figure (Giuditta, l'ancella Abra e Oloferne) prendono tutto lo spazio in una lotta spietata di potente dinamicità. La tavolozza di Artemisia si fa cupa come il delitto che si sta compiendo, l'abito è di un ricercato blu lapislazzuli, riccamente decorato, ma niente in confronto alle sete color ocra dorata della seconda versione, realizzata per Cosimo II dei Medici. La tela più grande (199 per 162,5 centimetri) consente ad Artemisia di allargare la composizione all'intero corpo di Oloferne, ancora vibrante nell'ultimo tentativo di non soccombere. Il drappo che copre il generale assiro è rosso, come la fodera delle maniche di Giuditta, che indossa un prezioso abito damascato e uno splendido bracciale le cinge il braccio destro in primo piano, quello con cui tiene saldamente ferma la testa dell'uomo, mentre con l'altro impugna la spada che lo decapita. Quasi che la pittrice, a distanza di anni, volesse stemperare la sua originaria irruenza caravaggesca con sontuosi particolari, che l'ambiente fiorentino sicuramente le suggeriva in quantità. Secondo la documentazione coeva, in un primo momento Cosimo II si era dimenticato di pagare il bellissimo dipinto, e solo con l'intervento dell'amico Galileo Galilei Artemisia fu ricompensata ''con generosità'' dal signore di Firenze.

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