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Ali: l'Islam e i diritti civili, il mito oltre il ring

Malcolm X e quel rifiuto per il Vietnam che gli costò il titolo

I 'pugni' degli afroamericani discriminati, voce degli oppressi, icona del movimento di resistenza alla guerra in Vietnam, 'ambasciatore' dell'Islam e infine simbolo della dignità nella malattia: Muhammad Ali ha fatto del suo smisurato talento e del suo sfacciato carisma personale strumenti di lotta politica, intrecciandoli alla sua leggenda di pugile e diventando così un'icona 'totale'.

La sua immagine ha contribuito ad accelerare l'esito di molte battaglie, a cominciare da quella contro la discriminazione dei neri, che lui subiva in prima persona nella natia Louisville, Kentucky, nel più profondo Sud razzista e segregazionista: "Avevo appena vinto una medaglia d'oro alle Olimpiadi (Roma 1960, ndr) per gli Stati Uniti, ma quando tornai a Louisville venivo ancora trattato da 'negro'. C'erano ristoranti in cui non venivo servito". Uno stigma presso una buona fetta della società bianca americana che lui si è scrollato di dosso, guadagnandosi rispetto e simpatia con la fatica, vittoria dopo vittoria, show dopo show. Ma fu l'Islam 'politico' e nazionalista la chiave di volta della sua 'liberazione' personale, la fucina nella quale forgiò la sua autostima di personaggio pubblico e la sua personalità: la Nation of Islam, il movimento fondato nel 1930 che univa il nazionalismo afroamericano a una dottrina religiosa non completamente ortodossa, affondando le radici nell'Africa pre-schiavista e pre-coloniale, in aperta opposizione alla religione dei "bianchi". E così nei primi anni '60 il Cassius Clay battista lasciò la religione dei padri e il "nome da schiavo" ed entrò in comunione spirituale con i suoi fratelli neri.

Diventò amico di Malcolm X, uno dei leader più influenti del movimento. Per un periodo ne seguì la strada: in dissenso con Martin Luther King, Malcolm X predicava che il fine della lotta non fosse l'integrazione nella società dei bianchi, ma "l'indipendenza" attraverso un'identità 'separata', fondata su integrità e 'superiorità morale'. "Sotto la tutela di Malcolm, ha conquistato il palcoscenico mondiale, diventando simbolo di orgoglio e indipendenza neri. Senza il leader politico, non sarebbe diventato 're del mondo'", hanno scritto due storici in un libro sul rapporto tra i due ("Blood Brothers"). Quando Malcolm X venne assassinato nel 1965, Muhammad Ali era già un'icona e il suo prestigio politico aumentò nel 1967, con il rifiuto di arruolarsi per la guerra in Vietnam, che ne fecero un esempio per tanti giovani americani: una scelta pagata di persona con la revoca del titolo mondiale dei pesi massimi e una condanna a 5 anni di carcere, che in realtà non scontò mai dietro le sbarre, ma con un esilio forzato di 3 anni e mezzo dal ring: "Non ho niente contro i Vietcong. Nessun Vietcong mi ha mai detto 'negro'". Ali continuò a segnare punti politici nutrendoli di vittorie strepitose sul ring, come il "Rumble in the Jungle" nello Zaire (oggi Congo) nel 1974, contro il favorito George Foreman, forse il più grande match di tutti i tempi.

"Ha costruito un ponte fra Africa e afroamericani", ha riconosciuto oggi in un omaggio il governo di Kinshasa. E non importa se allora cedette alle lusinghe del dittatore Mobutu: "l'incidente di percorso" scomparve non solo di fronte allo spettacolo che offrì sul quadrato, ma anche per lo spirito della lotta di liberazione dei neri d'America che aveva portato con sé nella loro patria atavica. Una scivolata inoltre ampiamente compensata dal suo successivo rapporto con Nelson Mandela. E molti oggi suggeriscono l'idea che senza di lui forse Barack Obama non sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti. Da strumento di lotta politica, l'Islam penetrò nel profondo di Ali. Nel 1975 si convertì al Sunnismo - l'Islam ortodosso - e infine, nel 2005, allo spiritualismo sufista, coronando un percorso spirituale divenuto sempre più interiore, complice anche il silenzio impostogli dal Parkinson. Di recente aveva dichiarato: "Io sono musulmano e non c'è nulla di islamico nell'uccidere persone innocenti a Parigi o a San Bernardino. I veri musulmani sanno o dovrebbero sapere che la violenza cieca dei cosiddetti jihadisti va contro gli stessi fondamenti della nostra religione".

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