In un festival con atmosfere alla Olmi (come quelle annunciate in Vermiglio di Maura Delpero), arriva in concorso sempre per l'Italia a Venezia 81 Campo di Battaglia di Gianni Amelio, ambientato nell'ultimo anno della prima guerra mondiale, tra la sconfitta di Caporetto e la pandemia da Spagnola, in cui la prima cosa che si nota sono la semplicità e l'innocenza davvero olmiane di questi soldati strappati dalle montagne e dai campi di tutt'Italia per essere gettati nell'inferno della guerra.
Ragazzi analfabeti, ricoverati in un ospedale in Friuli Venezia Giulia, che non sanno neppure esprimersi troppo e che hanno una paura così grande di tornare in guerra che rinuncerebbero a un occhio pur di rivedere casa. Qui due ufficiali medici, amici d'infanzia, che lavorano nello stesso ospedale militare ma che più diversi non potrebbero essere, devono affrontare un fenomeno molto diffuso in ogni guerra, ma poco conosciuto, ovvero l'abitudine di molti soldati di procurarsi ferite, auto-mutilarsi pur di non tornare a combattere.
Da una parte troviamo Giulio (Gabriel Montesi), di famiglia alto borghese e con un padre che sogna per lui un avvenire in politica, un medico comunque ossessionato da questi autolesionisti che considera traditori della patria che perseguita appena può e, dall'altra, invece Stefano (Alessandro Borghi) più comprensivo, umano e tollerante. Tra loro in ospedale c'è anche Anna (Federica Rosellini), amica di entrambi dai tempi dell'università e che, essendo donna senza una famiglia influente alle spalle, ha dovuto rinunciare alla laurea in medicina e diventare così solo volontaria alla Croce Rossa.
In questo film di Amelio pieno zeppo di umanità e che sembra provenire forse troppo da quello stesso passato che racconta, l'elemento più forte, oltre al ritratto dei due medici 'antieroi', è il racconto di questi soldati, vera e propria 'carne da cannone' che provengono non a caso dalle province più sperdute d'Italia (accade lo stesso oggi, per esempio, nella Russia di Putin).
Tornando alla storia del film - che ha il coraggio di raccontare, come ne La grande guerra di Mario Monicelli, che non ci sono solo eroi in battaglia, ma anche gente che ha paura - a un certo punto nell'ospedale molti malati si aggravano misteriosamente. C'è forse qualcuno che provoca di proposito delle complicazioni alle loro ferite, perché i soldati vengano mandati a casa, anche storpiati, mutilati? E non finisce qui. Verso la fine del conflitto si diffonde una specie di infezione che colpisce più delle armi nemiche e presto contagia anche la popolazione civile: la Spagnola.
Frase chiave del film è quella che dice il patriottico medico Giulio rivolto ai suoi malati: "Chi arriva qui o è un valoroso o è un vigliacco".
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