Da settimane le baracche nel deserto del Negev sono diventate trappole: i tetti sotto le bombe si frantumano diventando schegge come coltelli. "Qui siamo in Israele ma non esistono aree sicure e quando sentiamo i razzi non sappiamo dove andare, perché restare dentro è pericoloso": Migal al Hawashle Mauda è il capo di Al Ghara, ad ovest della base militare aerea di Nevatim a una cinquanta di chilometri da Gaza, ed è uno dei 37 villaggi non riconosciuti dallo Stato.
Nonostante non siano l'obiettivo dei terroristi, anche i beduini hanno pagato con il sangue gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e per loro non sembra ancora finita. "I razzi continuano ad essere lanciati in quest'area, ne arrivano decine e non abbiamo sirene di allarme né rifugi o ambulanze, per noi non esiste un'area sicura", sostiene Migal, 63 anni, che aggiunge: "Qui non c'è l'Iron Dome a proteggerci".
Quarantasette giorni fa, durante i massacri, i miliziani sono entrati nelle case facendo anche vittime arabe: ne hanno uccisi 17 e rapiti sette (quasi tutti erano impiegati nei kibbutz israeliani) mentre finora altri sei sono morti sotto le bombe.
Ma c'è anche chi, quel giorno, è riuscito a mettere in salvo una trentina di giovani al rave di Supernova: Youssef Alziadna, chiamato 'eroe di Israele', si precipitò sul posto e riuscì a far scappare più gente possibile caricandola sul suo pulmino. A Rahat, la 'capitale' beduina del deserto, è stato allestito un centro di coordinamento per aiutare i sopravvissuti. "Alcuni si sono anche arruolati nell'esercito come volontari", spiega Khalil Alamour, un attivista che è stato rappresentante dei beduini all'Onu e al parlamento europeo.
Sullo sterrato dei villaggi non riconosciuti ciò che resta dei razzi finiti in questi posti si confonde con i cumuli di rifiuti che dividono gli spazi di terreno sabbioso dai container, alimentati soltanto da generatori e qualche pannello solare, mentre i bambini giocano nella polvere. "Quando sentiamo arrivare i primi razzi che si schiantano - dice Migal - invece di rintanarci da qualche parte scappiamo fuori dalle abitazioni". Ci si affida a Dio o alla sorte, mentre nei primi tempi alcuni ragazzi avevano anche istituito delle ronde notturne con le macchine, per segnalare eventuali avvistamenti o boati in lontananza.
In tutto il Negev i beduini sono circa 320mila, di cui 130mila nei villaggi non riconosciuti. "Per questi ultimi, che sono sempre stati sotto la minaccia di demolizioni con le ruspe, la situazione si è aggravata dall'inizio della guerra", aggiunge Khalil. Secondo i dati forniti, se ogni anno si contano circa 2.500 sgomberi dai villaggi, oltre 800 sono avvenuti soltanto nell'ultimo mese. Molti di loro lavorano per la Sodastream, un'azienda che fabbrica macchine per la produzione della soda, punto di riferimento economico per la comunità. Tanti altri, che lavoravano nei kibbutz e nelle fattorie di famiglie israeliane vicino alla Striscia, invece hanno perso la garanzia di uno stipendio. "Ora è impossibile lavorare - sostiene Khalil - in parte perché quei posti si sono svuotati, in parte perché adesso è proibito farlo: i beduini vivono in Israele, ma sono arabi".
Nessuna protezione, per ora a tentare di salvarli potrebbe esserci solo il fiuto per i missili. E per la gente come Migal, provare a lasciare quei luoghi aperti al fuoco di Hamas non è un'opzione: "Per la nostra tradizione, andare via da qui sarebbe una vergogna".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA