Le gambe e le spalle sono doloranti ma i cartelli di legno, con i volti dei 239 ostaggi di Hamas, li hanno tenuti alzati per sessanta chilometri di marcia in autostrada fino alla fine, per cinque giorni. La disperazione ha messo in cammino decine di migliaia di israeliani che partiti martedì scorso da Tel Aviv sono arrivati fino a Gerusalemme davanti agli uffici di Netanyahu per chiedere il rilascio dei rapiti, da oltre un mese l'arma più potente nelle mani dei terroristi.
Il premier non c'è. Ma qualche ora dopo annuncia che lunedì convocherà il gabinetto di guerra per un incontro con le famiglie, mentre il ministro Gadi Eisenkot parlando con una delegazione di familiari a Tel Aviv chiarisce: "Il ritorno degli ostaggi è la priorità suprema, e precede anche la demolizione di Hamas". Netanyahu torna quindi a smentire le voci di un accordo vicino per il rilascio dei rapiti, definendole "infondate".
"Marcio con voi - il suo messaggio - tutta Israele marcia".
Dalla piazza intanto, sul finire dell'ultimo shabbat, gli appelli si moltiplicano: "Non possiamo aspettare ancora", dice Yuval Haran, che spera per il ritorno a casa di sette membri della sua famiglia portati via dal kibbutz di Be'eri. C'è chi come Orin Gatz, la madre della 28enne Eden Zacharia, è disposta a continuare a sfilare in corteo anche a Gaza se questo dovesse servire: "Ovunque dovremo andare andremo, non rinunceremo ai nostri figli". Tra le bandiere di Israele lo slogan dei 35mila in piazza è "Liberateli adesso". Le immagini degli ostaggi sono quasi ovunque da più di quaranta giorni e al passaggio del corteo tante altre strade come la Highway 1 vengono tappezzate con le stesse fotografie, mentre agli specchietti delle auto ci sono allacciati i nastri gialli di solidarietà.
In tanti criticano il premier per aver permesso rifornimento di carburante e pause umanitarie a Gaza: mosse che avevano creato aspettative, tanto che fino a pochi giorni fa si erano rincorse le voci di un possibile accordo per il rilascio di almeno una parte degli ostaggi. La base negoziale, mediata dal Qatar e concordata con gli Stati Uniti, prevedeva il rilascio di una cinquantina di persone in cambio della scarcerazione di alcune donne e bambini palestinesi, oltre a tre giorni di cessate il fuoco sulla Striscia. Ma i colloqui sono poi entrati in una nuova fase di stallo e i miliziani hanno alzato la posta: cinque giorni di tregua, consentire gli spostamenti tra il sud e il nord di Gaza e divieto di sorvolo dei droni. Richieste difficili da concedere, visto che la localizzazione dei rapiti passa soprattutto per il monitoraggio aereo.
Nel frattempo la propaganda di Hamas manda quasi quotidianamente nuovi video e immagini degli ostaggi, in alcuni casi annunciandone l'avvenuta morte. Il terrorismo psicologico dei sequestratori - così come lo ha definito l'Idf - fa salire l'apprensione: "Siamo sicuri che il governo ha informazioni sullo stato di salute dei nostri parenti, se sono feriti e se sono stati uccisi, almeno questo devono dirlo", dice Ohad che spera per suo cugino Omer Neutra, 22 anni. In tanti insistono: "Bisogna tentare di tutto, anche accettare uno scambio con tutti i prigionieri palestinesi". Ma in piazza si accendono anche discussioni e c'è chi è sostiene che in questo momento "bisogna essere lucidi senza cedere, ne va della sicurezza del Paese".
Dvora Cohen, che imbraccia i cartelli con i volti di suo cognato e di suo nipote di 12 anni, invoca l'aiuto della Croce Rossa: "Ci diano una mano a trovarli e almeno si occupino anche delle cure dei rapiti". Il fidanzato di Inbar Haiman, la 27enne portata via dopo l'irruzione dei terroristi al rave, aggiunge: "Il governo deve dirci cosa vuole fare". Nessuno conosce le strategie di una partita così delicata e pericolosa, ma la sgomento di chi soffre non vuole attendere. Umanamente non può.
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