"La guerra non è una cosa buona. Ma per me significa una cosa sola: proteggere mia moglie e i figli che avremo. Lotto per la mia famiglia, per averne una". David è un riservista israeliano di 28 anni, in turno di riposo in un hotel di Tel Aviv dove è stato sfollato con la moglie e la cognata da una cittadina del nord del Paese. Non rivela il nome del suo battaglione e non dà indicazioni che riguardano la sua unità, di stanza al confine con il Libano, da dove ogni giorno Hezbollah e i miliziani acquartierati nel Paese dei cedri tirano razzi verso Israele. Non ha il permesso dell'esercito per parlare con i giornalisti, ma sente l'urgenza di spiegare ragioni che fuori da Israele possono risultare ostiche da comprendere.
"Le persone in Europa, in America non riescono a capirci. Gli svedesi, i francesi, gli italiani, hanno la loro nazione da sempre, è la loro casa, il posto in cui possono tornare e sentirsi al sicuro. Gli ebrei hanno avuto uno Stato nel 1948. Prima, per migliaia di anni, sono stati deportati da questa terra in qualsiasi posto, sono fuggiti, sono stati perseguitati, aggrediti, derubati, segregati nei ghetti, discriminati, uccisi nei loro letti. Perché? Per nessuna colpa in particolare, per la loro religione. Noi abbiamo questa terra, dove vivevano i nostri antenati, non ne abbiamo un'altra dove sentirci protetti.
L'antisemitismo è dappertutto: questa è l'unica casa che abbiamo, non ce n'é un'altra".
David è uno studente di economia e finanza, si è sposato un anno fa e per il viaggio di nozze ha scelto di girare l'Europa in macchina. "In certi posti io e mia moglie abbiamo fatto amicizia con le persone del luogo. Qualcuno ci ha consigliato, "non dite che siete israeliani, meglio per voi. Eravamo in Europa", racconta all'ANSA. "Noi vogliamo una sola cosa, stare in pace nella nostra terra. Dall'altra parte ci sono persone che più che pensare ad avere il loro Stato, a vivere e migliorare la loro vita, si organizzano per uccidere tutti gli ebrei. E' il loro unico obiettivo. Ammazzano anche arabi cristiani, drusi, beduini, cristiani ortodossi, cittadini di Paesi stranieri, come gli ucraini, che prestano servizio nell'esercito perché vivono qui e sono residenti in Israele". Per questo giovane riservista la guerra di oggi non è una novità, nel 2014 é stato a Gaza per 42 giorni, a 19 anni. L'intera durata della campagna militare cominciata l'8 luglio contro Hamas che in quei giorni aveva lanciato più di 3mila razzi. Attacchi che si erano intensificati con l'azione militare israeliana Operation Brother's Keeper partita dopo il rapimento e l'uccisione di tre adolescenti israeliani per mano dei miliziani. La campagna finì il 26 agosto successivo, con la decisione di una tregua duratura raggiunta al Cairo.
"Hamas ci ha reso tutti meno emotivi. Indosso l'uniforme con orgoglio, per me è come se la guerra non fosse guerra. Non penso a che cosa significa la guerra, non posso. Non ho paura, vado a fare quello che devo fare. Mia moglie ogni volta mi dice di non partire, ma è fuori discussione. Per me lottare per i miei cari, il mio Paese, la mia terra non è un obbligo. E' quello che voglio fare. Lo faccio e basta", cerca di spiegare nel migliore dei modi che cosa c'è dentro di lui, David. "Quando ci ritroviamo tutti insieme con gli altri soldati, ci sentiamo un'unica famiglia. La gente ci incontra e ci ringrazia, ci offre di tutto, al bar o al supermercato pagano per noi. Siamo uniti. In Israele è così. Forse lontano da qui non è facile comprendere. Capire che cosa? Che quello che cerchiamo tutti noi é stare al sicuro". David è uno dei 300mila riservisti che l'esercito israeliano ha contattato e richiamato in servizio dopo il massacro del 7 ottobre. Anche chi tra di loro era all'estero è rientrato in patria immediatamente. Nessuno è mancato all'appello.
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