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Quirinale: 1999, il patto D'Alema-Veltroni-Cav fa eleggere Ciampi

I popolari volevano uno dei loro, Marini litigò con D'Alema

di Marco Dell'Omo

"Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato il voto e prego di non votare più per me perché non sono più disponibile": Il 13 maggio del 1999, nello studio di via venti Settembre al ministero del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi segue lo spoglio della votazione per l'elezione del presidente della Repubblica. Con lui c'è il giovane direttore generale, il quarantenne Mario Draghi. In diretta televisiva, il presidente della Camera Violante legge le schede una a una mano a mano che i segretari d'aula gliele passano: "Ciampi. Bianca. Ciampi. Ciampi...". Il nome del ministro su cui D'Alema, Veltroni e Berlusconi si sono messi d'accordo non ha rivali, ma a metà dello spoglio a Ciampi e Draghi sembra che le cose si mettano male e che la candidatura non supererà il quorum dei due terzi necessario nelle prime tre votazioni. Ciampi allora prende un biglietto e scrive una nota da consegnare all'ANSA per annunciare il suo ritiro in caso di sconfitta. "La mia candidatura ha senso solo se si appoggia su una maggioranza larga, ma se cominciano i franchi tiratori faccio un passo indietro", spiega a Draghi mentre butta giù l'appunto. In effetti Ciampi cammina sul filo del quorum : sulla carta avrebbe 892 voti, ma l'andamento dello spoglio fa capire che non sta facendo il pieno. Ma alla fine per lui ci sono 707 voti su 1010: la soglia dei due terzi è superata per 33 voti, e Ciampi è eletto capo dello Stato alla prima votazione, come Cossiga quattordici anni prima.

Al Quirinale arriva così il superministro di Prodi e D'Alema, già governatore della Banca d'Italia e tra il '93 e '94 presidente di un governo di emergenza nel periodo in cui la credibilità dei partiti aveva raggiunto con Tangentopoli il suo punto più basso. E' un livornese senza tessera di partito, un alto funzionario dello Stato fuori dalle battaglie politiche che è stato determinante per agganciare l'Italia all'Europa monetaria.
La sua candidatura matura nella primavera del 1999. I due grandi registi dell'operazione che lo porta al Quirinale sono Walter Veltroni, segretario dei Democratici di Sinistra, e il presidente del consiglio Massimo D'Alema: rivali nel partito, ma in questo momento in sintonia sul da farsi.

Negli ultimi sette anni, la politica italiana è completamente cambiata: durante la presidenza di Scalfaro la Dc è scomparsa, il Psi si è ridotto al lumicino e Berlusconi è sceso in campo. Dopo la vittoria del centrodestra nel '94 e il ribaltone che ha mandato a casa il primo governo Berlusconi, il centrosinistra ha vinto le elezioni del 1996 e ha mandato Prodi a palazzo Chigi: ma la sua permanenza è stata breve, stroncata dopo neanche due anni dalla pugnalata di Bertinotti. A Palazzo Chigi è così arrivato Massimo D'Alema, reduce dal tentativo (finito male) della bicamerale e del "patto della crostata" con Berlusconi sulle riforme.

Quando si tratta di scegliere il nuovo capo dello Stato, Berlusconi ha un obiettivo irrinunciabile: evitare in tutti i modi che sul colle salga un nuovo Scalfaro. La ferita del ribaltone ancora brucia (Berlusconi è straconvinto che dietro l'operazione c'era lui) e Forza Italia farà le barricate per avere un nome super partes . Il Cavaliere di Arcore trova orecchie attente in Massimo D'Alema, che governa con una maggioranza risicata (il suo governo post-Prodi si tiene insieme grazie ai voti della pattuglia messa insieme da Cossiga e Mastella) e non vuole che la scelta del nuovo presidente della Repubblica avveleni gli animi e porti a nuove turbolenze parlamentari. E poi D'Alema è sempre dell'idea che con Berlusconi bisogna trattare, non andare allo scontro frontale. Per una volta D'Alema ha dalla sua parte Walter Veltroni: il segretario dei Ds punta a un candidato da far eleggere al primo scrutinio con i due terzi dei voti (la maggioranza è troppo risicata e rissosa per farcela da sola), e insieme a D'Alema pensa subito a Ciampi, il supertecnico che si è imposto anche nella politica, vicino al centrosinistra ma senza indossare casacche. Il 5 maggio Veltroni suona al campanello di casa Ciampi in via Anepo, nell'elegante quartiere Trieste: il segretario del partito dei post comunisti chiede a Ciampi se è disponibile a farsi candidare, ma non gli nasconde le difficoltà nella maggioranza. Il centrosinistra, infatti, non è per niente unito. A scalpitare è soprattutto il Ppi, il partito erede della democrazia cristiana guidato in quel momento da Franco Marini: i popolari vogliono che al Quirinale salga un cattolico (più che altro vogliono uno dei loro) e hanno paura di essere messi all'angolo dall'accordo tra D'Alema e Berlusconi. Ciampi accetta l'offerta di Veltroni, ma in cuor suo non crede di potercela fare: "Figurati - dice alla moglie Franca - non è mai successo che abbiano chiamato uno fuori dalla politica come me. Sceglieranno un parlamentare anche questa volta, vedrai". I popolari, in allarme per le manovre di Veltroni e D'Alema, lanciano la candidatura di Rosa Russo Iervolino e poi quella di Nicola Mancino, ma nessuna delle due fa breccia nella maggioranza. Marini si arrabbia moltissimo con D'Alema: volano parole grosse, ma i Ds non cedono. Intanto l'offensiva in favore di Ciampi va avanti e dà i suoi frutti. Qualche giorno prima della convocazione del Parlamento, due emissari di Fini, Altero Matteoli e Luciano Magnalbò, vanno nello studio di Ciampi al Tesoro e gli dicono che Fini ha dato il suo via libera. Il 12 maggio, vigilia della votazione, arriva la telefonata di Gianni Letta: "Noi di Forza Italia siamo pronti a votarla , già nella votazione di domani" gli dice il plenipotenziario di Berlusconi. L'ultimo tassello è andato al posto giusto: per Ciampi voteranno tutti i partiti tranne Lega, Rifondazione comunista e franchi tiratori popolari che disperdono i loro voti tra Nicola Mancino e Rosa Russo Jervolino. Ma il partito dei franchi tiratori, una volta tanto, non ce l'ha fatta. Poi toccherà a Giorgio napolitano.

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