Non si spengono le polemiche e i dubbi, condivisi da una parte della comunità medico-scientifica, sull'alleggerimento pur graduale e per ora molto parziale del lockdown avviato dal governo di Boris Johnson in Gran Bretagna, ormai uno dei Paesi più colpiti al mondo dal coronavirus.
A far discutere è fra l'altro che un comitato istituto ad hoc dallo stesso esecutivo ha confermato in questi giorni al livello 4 (ossia contagio in dimensioni ancora elevate) l'allerta nazionale, sulla scala di 5 introdotta un mese fa e illustrata proprio da Johnson al Paese come bussola di riferimento.
Il premier Tory aveva evocato la settima scorsa un imminente passaggio al livello 3, grazie alla curva finalmente in costante flessione di casi e decessi. Alla fine non è però avvenuto: secondo una ricostruzione diffusa dalla Bbc, a causa delle resistenze dei consulenti scientifici del governo nei confronti del vertice politico. Il problema è che in cifra assoluta i numeri restano più alti rispetto ad altri Paesi, ma nonostante questo l'esecutivo ha proceduto all'avvio di qualche ripresa di attività lavorative, alla riapertura da ieri delle prime scuole e a limitate concessioni sul fronte dei contatti sociali: scelta in apparante contraddizione col richiamo iniziale di Johnson alla nuova scala di allerta come a un indicatore cruciale.
Sul governo Tory pesa inoltre il monito dell'autorità di controllo indipendente sulle statistiche, che sta sollevando ombre sulla completezza e la chiarezza degli ultimi dati forniti dal ministero della Sanità sulla impennata dei tamponi nel Regno fino a una "potenzialità" di 200.000. Un incremento sancito - senza precisazioni sul totale individuale delle persone effettivamente testate - sullo sfondo del lancio in pompa magna del meccanismo di "test e tracciamento" destinato sulla carta a garantire controlli mirati dei contagi nel percorso d'allentamento delle restrizioni verso la Fase 2.
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