ROMA - L’occupazione nel settore cultura cresce in Europa. E anche in Italia: 614 mila persone impiegate nel 2015, con un significativo aumento (+3,7%) rispetto al 2011. In Germania, però, sono circa il doppio e nel Regno Unito l’84% in più. E una parte consistente dell’occupazione culturale non è generata direttamente dalle imprese dell’Industria Culturale e Creativa (ICC), ma da quelle di altri settori e dal pubblico. Ma per la prima volta si sta aprendo un mercato globale che permette all’Italia di competere ai livelli più elevati.
Sono alcuni dei dati emersi dal III Rapporto annuale dell’Associazione Civita, “L’Arte di produrre Arte. Competitività e innovazione nella cultura e nel turismo” (ed. Marsilio – pp. 307). Al centro dello studio di quest’anno, curato da Pietro Antonio Valentino, il tema dell’innovazione, in particolare quella prodotta dalla rivoluzione informatica e dalla diffusione del digitale che ha modificato sia le modalità di produrre e consumare cultura che il rapporto fra domanda e offerta nel settore turistico. E facendo ricorso ai dati Unesco ed Eurostat, spiega il curatore, risultati meno “rosei” di quelli derivanti da molte indagini empiriche condotte in Italia, che evidenziano comunque l’esistenza di ampi spazi non utilizzati per far crescere il settore e la sua importanza per l’economia nazionale e lo sviluppo locale.
Prendendo, ad esempio, in considerazione il contributo del cultural employment all’occupazione totale si ricava sia che gli altri paesi europei fanno meglio dell’Italia sia che l’importanza delle ICC per tutte le economie nazionali considerate è piuttosto modesta.
Il valore più elevato è quello del Regno Unito dove nel 2015 l’occupazione culturale è il 3,6% del totale. In Germania siamo al 3%, mentre l’Italia si attesta al 2,7%, come la Francia, ma sotto la media dell’Europa a 28 nazioni (2,9%). Quanto alla produttività, la media dell’ICC italiana è più alta della Spagna (quasi 41 mila euro “prodotti”ad addetto “contro” 28,1) ma inferiore a quella di tutti gli altri paesi e della media europea (44,4), con il Regno Unito capofila con 108,8, seguito da Francia e Germania (58,5 e 50,3).
Quali sono dunque le ragioni che rendono il settore culturale e creativo strategico per le economie nazionali e territoriali? La prima, dice il Rapporto, è che in tutti i paesi l’occupazione culturale ha subito meno gli effetti della crisi. In Italia, dopo 5 anni sono ancora in piedi il 42% delle nuove aziende dell’audiovisivo, il 40% del design, il 34% dell’intrattenimento e arti visive, il 40 di Musei, biblioteche e archivi, facendo in alcuni casi anche meglio di altri big europei.
La seconda ragione riporta al tema della “rivoluzione informatica” che estende il mercato a una dimensione sempre più internazionale. L’export mondiale di cultural goods (i prodotti culturali destinati al consumo finale), si legge nel Rapporto, nel 2013 ha superato i 212 miliardi di dollari e nel periodo 2009-2013 è cresciuto del 42,5%. A queste cifre bisogna aggiungere poi l’export dei servizi culturali, di più difficile rilevazione statistica. Il dato disponibile (2012) e limitato ai paesi più industrializzati lo valuta circa 100 miliardi di dollari. A fare meglio di tutti in Europa è ancora il Regno Unito con 14,74 miliardi di dollari per i Cultural Goods e 13,85 per Culturale Service, seguito da Germania e Francia. L’Italia si attesa a 8,36 (in questo caso più della Francia) e 2,11.
La rivoluzione digitale incide poi fortemente nei consumi di nuove fasce di fruitori, i cosiddetti turisti creativi, nelle attività culturali “tradizionali” come le visite ai musei, ma anche in tutte quelle attività legate alla cultura di un territorio (dalla moda alla gastronomia). Un esempio viene dall’esperienza delle Capitali Europee della cultura, che nel periodo 1996-2000, nell’anno ”in carica” hanno portato incrementi di visitatori fino al 75% a Weimar, del 15% a Thessaloniki e del 12,1% a Bologna (media 7,4%).
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