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Sentinelle delle donne, italiane che aiutano il Libano

Romina, supportiamo e ispiriamo modelli per risollevare il Paese

Romina sa che tra le montagne rocciose a sud di Beirut l'arma che conta è solo l'ascolto. "Ci aprono le porte di casa perché dicono che noi italiani abbiamo un modo unico di sorridere". E' con l'empatia che il suo gruppo ha raccolto il grido d'aiuto delle madri libanesi, organizzando una donazione di sangue per i bambini che stavano male: è così che le sacche rosse gonfie sono arrivate nelle stanze degli ambulatori.

 


    Nell'abisso del Libano piombato peggiore crisi economica della sua storia, le donne, gli anziani e i bambini chiedono medicinali e gasolio. E allora Romina Fedeli, ufficiale impegnata nella missione italiana di Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) si è attivata con le sue settantadue sentinelle in mimetica e basco blu: è un team di supporto femminile che parte della basi di Shama o Naqoura e gira tra villaggi e suk, stringe mani, abbraccia e conforta quella parte di Paese dove operano le forze italiane per il mantenimento della pace, a una manciata di chilometri dalla linea blu al confine con Israele. "Le donne sono un moltiplicatore di forze nelle operazioni di peacekeeping, perché arrivano a parti della società diversamente raggiungibili", ammette entusiasta Roberto Vergori, comandante del contingente internazionale nel settore ovest della missione Unifil, che si avvale della consulenza del tenente colonnello Fedeli.
    "Accogliamo i bisogni di quella parte di popolazione, come le donne libanesi, per le quali noi rappresentiamo una possibilità", prosegue la responsabile dei cosiddetti 'Gender Focal Point', marchigiana di quarantatré anni, pronta a prendersi cura delle minoranze più fragili all'interno del Paese e combattere il gender gap, appunto. Figure come la sua hanno ispirato modelli nuovi, impensabili fino a qualche anno fa: tra queste, la prima giovane pilota libanese di un jet, Jana Sader.
    Ma ci sono anche le combattenti silenziose. Dahad, direttirce di una scuola per bimbi con disabilità, viene spesso a trovarla alla base con delle teglie piene di dolci fatti da lei, quasi a ripagare i libri e le richieste urgenti che giungono senza pausa. "Sente un legame forte con noi, qui siamo viste come loro sorelle e riusciamo a supportarle nelle loro battaglie quotidiane. Ci siamo anche attivate per poter mettere a disposizione delle macchine da cucire, così potevano farsi da sole indumenti intimi".
    Tutto nel rispetto dell'intricata cultura libanese. "Del resto in questi posti, dove convivono diciotto religioni, facciamo in modo che siano rappresentate tutte", chiarisce la soldatessa marchigiana, la quale ha trasformato il trauma della sua adolescenza in una missione: "nel terremoto del 1997 il mio paese, Collecurti vicino a Macerata, era stato raso al suolo dal terremoto. Fu un po' come un bombardamento, io e la mia famiglia eravamo sotto le macerie e furono i militari ad estrarci vivi.
    Da quando ho visto quelle uniformi impolverate ho deciso che avrei indossato anch'io la divisa". Adesso tocca a lei tendere la mano, tra le macerie del Libano da rimettere in piedi.
    
   

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