Le dune della spiaggia di Sabaudia sembrano lontane. Il rumore del mare appare qualcosa di impensabile. Qui, nei campi di zucchine di Bella Farnia e Borgo Hermada, nelle piantagioni di cocomeri di Terracina e Fondi, è come stare in un altro paese. A ricordarci che invece siamo proprio nelle terre in cui sostò Ulisse, c’è solo una sagoma, un’ombra: quella del Circeo. Ai suoi piedi ci sono tanti uomini che si asciugano il sudore dopo essere stati piegati per ore; inginocchiati a raccogliere ravanelli, zucchine, insalata. Sono 30mila indiani provenienti dal Punjab, una regione agricola del nord-ovest dell’India. I primi arrivarono già 30 anni fa: oggi rappresentano una comunità radicata. Una comunità numerosa eppure per anni invisibile.
“Qui in Italia pensavamo di trovare la dolce vita – racconta Tallvinder, 26 anni, uno dei tanti lavoratori a tempo pieno – invece è un incubo. Non possiamo uscire, conoscere gli italiani. Io vorrei tanto lavorare per vivere, invece vivo per lavorare”. A Bella Farnia, un complesso residenziale nato come villaggio vacanze per romani e napoletani, è diventato la casa di centinaia di indiani sikh; ne vediamo molti al ritorno dai campi. All’interno del complesso c’è un bar gestito da indiani dove incontriamo un giovane. Le sue braccia sono piene di graffi, il viso stanco. “Mi pagano 3 euro l’ora e lavoro tutti i giorni, 12, 13 ore – dice –, senza pause. Non mi riposo mai”. Quando gli chiediamo del suo padrone si ferma, cambia tono, si copre il volto con una mano e si stacca il microfono agganciato alla maglietta. La paura di perdere il posto è tanta. Harbhajan, custode del tempio sikh di Sabaudia, vive qui da anni e conosce bene la situazione dei suoi connazionali.
“Qui è tutto sfruttamento. Tanti indiani non vengono pagati o gli viene data una busta paga falsa. C’è scritto che riceveranno mille euro al mese, ma ne ricevono cento”. Vicino a lui c’è un ragazzo, sempre indiano. Harbhajan lo indica e riprende il discorso: “Un padrone gli deve 5mila euro, ma non glieli ha mai dati. Tanto c’è sempre qualcun altro disposto a lavorare”. Orari di lavoro estenuanti, assenza totale di diritti, emarginazione. Una nuova schiavitù che sembra non interessare la popolazione dell’Agro Pontino dove gli abitanti convivono con questa comunità senza conoscerla. L’unico contatto, anche se involontario, avviene per strada. È infatti facile vederli pedalare le bici al ritorno dal lavoro.
“Oggi la provincia e diversi comuni gli hanno fornito dei giubbotti catarifrangenti – spiega Marco Omizzolo, sociologo e responsabile dell’Associazione In Migrazione – per proteggerli dalle auto. In passato ci sono stati molti incidenti e tanti indiani sono stati investiti dalle automobili che qui, lungo i rettilinei, corrono tantissimo. Ci sono stati anche casi in cui i braccianti sono stati speronati volontariamente poiché avevano semplicemente chiesto al loro datore di lavoro di essere pagati in modo adeguato o semplicemente di essere pagati”.
In questa terra all’ombra del Circeo, per migliaia di indiani non esiste integrazione. C’è solo uno sfruttamento sistematico che si basa sul rapporto di sudditanza e di reverenza nei confronti del datore di lavoro.
“Parlare con gli indiani significa molto spesso sentire le parole “padrone bravo” – spiega sempre Omizzolo. Padrone perché spesso il datore di lavoro si fa chiamare così, determinando una sorta di esercizio di potere estremo. Bravo perché è colui che ti dà il lavoro ed è colui che mantiene la promessa iniziale: pagarti 3 euro l’ora. E anche quando non la mantiene, il padrone rappresenta l’ultima e unica speranza per continuare ad avere un introito economico”.