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Alessandro Zaccuri, Milano manzoniana da fuilleton

Alessandro Zaccuri, Milano manzoniana da fuilleton

Sorprendente romanzo d'avventure tra aristocrazia e bassifondi

ROMA, 26 febbraio 2022, 20:00

(di Paolo Petroni)

ANSACheck

La copertina di Poco a me stesso - RIPRODUZIONE RISERVATA

La copertina di Poco a me stesso - RIPRODUZIONE RISERVATA
La copertina di Poco a me stesso - RIPRODUZIONE RISERVATA

ALESSANDRO ZACCURI, ''POCO A ME STESSO'' (MARSILIO, pp. 234 - 16,00 euro). Un romanzo d'avventure ottocentesco sulla scia di Dumas, Dickens e Balzac che si rivela un raffinato gioco letterario, storico e linguistico, che in realtà ci parla di maschere, naturali o d'impostura, e del bisogno di fare i conti con la propria vera, intima identità. Questo vale per i tre personaggi principali, la ottantenne marchesina Beccaria, il barone Cerclefleury e il contabile Tirinnanzi che vivono, più o meno consapevolmente, nella finzione sino al finale con le sue necessarie disvelazioni liberatorie.
    Del resto il romanzo tutto ciò lo annuncia sin dal titolo, partendo da Manzoni (e si veda su questo la nota finale di Zaccuri) e da un suo sonetto che recita ''Poco noto da altrui, poco a me stesso / Gli uomini e gli anni mi diran chi sono'', e l'ombra dell'identità dell'autore dei ''Promessi sposi'', senza mai apparire o essere nominato, si stende su tutto il racconto.
    Si immagina infatti che il figlio illegittimo della marchesina Giulia, nato da una segreta relazione con Giovanni Verri, non diventi appunto Alessandro Manzoni come sappiamo, con le nozze riparatrici di lei con Pietro Manzoni ''conte vecchiardo e di oscura fama'' che gli dà il proprio cognome, ma che la giovine Beccaria non accetti di soffocare così lo scandalo, e restando nubile nasconda il frutto neonato del suo peccato esponendolo alla ruota della chiesa di Santa Caterina, come avveniva a quel tempo a Milano, trovatello cui verrà dato il nome di Evaristo Tirinnanzi.
    E tale uomo, pur avendo una protettrice nella marchesina che ne segue gli studi e poi lo assume a palazzo come contabile-amministratore dei suoi beni, non poteva che essere un infelice, portando sempre con sé una moneta spezzata e altri oggetti lasciati con lui dalla madre ignota e sentendosi perseguitato da fantasmi interiori, di cui registra le voci come per scrittura automatica, che dà vita a uno zibaldone confuso di lacerti che noi capiamo come siano tutti d'eco manzoniano. E poi il poveretto è anche ingenua preda del vizio del gioco che lo ha riempito di debiti e messo in mano a gente terribile.
    A sostenerlo, e trovarsi coinvolto con lui in sorprendenti e torbide avventure, arriverà un altro personaggio dal curioso e misterioso passato, la cui testimonianza dovrebbe essere in alcuni bauli che spera arrivino presto ma che si finisce per sospettare siano andati perduti. Si tratta del barone francese Aurelien Cerclefleury, che la marchesina ha invitato e ospita a Milano, sedotta dalla sua fama di guaritore e erede del grande Mesmer, di cui possiede lo stesso potente magnetismo animale, come dimostrerebbe il suo aspetto di trentenne, pur dicendo di avere più del doppio di anni e promettendo analoghi benefici effetti che seducono con sedute e interventi la Beccaria e le sue nobili amiche milanesi, a cominciare dalla Antonietta Sebregondi, oltre a un anziano Cavaliere di Rivabella, che in gioventù conobbe anche lui Mesmer.
    Quando la marchesina si ammalerà gravemente, assisteremo così allo scontro tra la scienza di un noto medico Mambrotti e il fluido mesmerico del barone, ma sarebbe scorretto raccontare troppo, levando le sorprese che riserva la lettura di questo come di ogni altro fuilleton di buon livello, anche perché tutto poi trova il suo fascino e senso nella scrittura, raffinata e d'epoca letterariamente mimetica (con chicche come i suoi ''Affè!''), con belle qualità descrittive d'ascendenze pittoriche e letterarie. Si veda l'abilissimo racconto della realtà e vita del malfamato quartiere del Bottonuto e della casa del Faggini col suo bastone piombato che infligge punizioni e morte, in cui sono gli echi della Londra di De Foe e di Hogarth con i chiaroscuri forti e spietati del lombardo Peterzano, uno dei maestri di Caravaggio.
    La storia non si fa con i se, ma la letteratura per fortuna dei lettori sì, e davvero, come annota manzonianamente ogni tanto l'autore, ''quel che accadde in quella giornata nella mente dell'infelice offrirebbe da solo materia per un romanzo".
   
   

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