JORGE LUIS BORGES, ''IL TANGO'' (ADELPHI, pp. 170 - 14,00 euro - traduzione di Tommaso Scarano).
Per certi versi potremmo dire che Borges è sempre alla ricerca di un senso perduto in fondo a un labirinto, ed è quel che anche praticamente fa in queste sue quattro conferenze sul Tango, tenute nel 1965 in un locale della sua Buenos Aires e registrate su audiocassette sorprendentemente conservate in una scatola di scarpe da un produttore di musica galiziano vissuto in Argentina, che poi le donò a un amico che lo aveva ospitato in Spagna, il quale le diede nel 2002 allo scrittore Bernardo Atxaga, Quest'ultimo solo nel 2007 riuscì ad avere la conferma della loro possibile autenticità e infine nel 2012 ne scrisse su un giornale e le consegnò a Cesar Molina, direttore della Casa del Lector di Madrid che le fece ascoltare alla vedova di Boges, Maria Kodama, che riconobbe la voce e ne risalì all'origine, autorizzandone la pubblicazione di cui oggi esce l'edizione italiana, anticipata da alcuni stralci usciti su La Repubblica nel dicembre 2014. Ora, aldilà delle vicissitudini misteriose e... labirintiche di queste cassette, Borges cerca il senso e le origini del tango, a cominciare dal suo stesso nome, in una perduta memoria africana, nei ricordi atavici, recuperati nell'inconscio dagli schiavi neri, per prendre in giro i quali nacque la milonga sulla base dei loro candombe ballati nei locali di terzordine.
In una Buenos Aires negli ultimi vent'anni dell'Ottocento, piccola, circondata da terreni incolti e paludosi, provinciale e tutta di case basse, il tango sarebbe nato negli stessi luoghi in cui sarebbe nato pochi anni dopo il Jazz negli Stati Uniti'', ossia bordelli e case di malaffare, tanto è vero per Borges che viene suonato al piano, flauto e violino, ma non con la chitarra che era lo strumento naturale argentino di tutte le osterie, e col popolo che lo rifiuta all'inizio, specie le donne, che ne conoscono l'origine indecente. Ed è in queste radici e metamorfosi, che non si sa quanto vere e quanto mitiche o letterarie, che sta per lo scrittore la verità, l'anima di questa musica e ballo, almeno sino alla prima guerra mondiale, dopo la quale si farà melodrammatica e compiaciuta, grazie anche alla nota lamentosa che gli deriva dall'aggiunta di uno strumento come il bandoneon di origine tedesca. Altrimenti gli argentini non troverebbero in esso la propria identità e la memoria e l'onore dei propri morti, di quel ''coraggio, quella felicità, il metter alla prova il proprio valore, la sfida verso gli sconosciuti''. E' per questo che Borges rifiuta la celebre definizione del tango di Ernesto Sabato ''un pensiero triste che si balla'', sia ''perché non credo il tango sia assimilabile a un pensiero, ma a qualcosa di più profondo, un'emozione'', sia perché ''l'aggettivo triste è davvero qualcosa che non si può attribuire ai primi tanghi''.
Anzi, conclude le sue conferenze sintetizzando che ''il tango, ma soprattutto la milonga, è stato un simbolo di felicità'' in cui sopravvive eterno ''qualcosa dell'anima argentina che è stato salvato da questi umili, e a volte anonimi, compositori della periferia, qualcosa che tornerà''.
Con una certa elegiaca nostalgia Borges ha una sua visione personale e esalta solo il tango delle origini, quindi, il ballo della plebe, delle periferie che sfidano la morte, di veri uomini di un tempo ormai passato, ed è questa sua natura, ci ricorda il curatore di questa edizione italiana, Tommaso Scarano, che conquistava le avanguardie primo Novecento in opposizione a quella borghesia, sia quella nazionalista che quella socialista, che lo trovava eccessivamente folcloristico e roba da immigrati. Questo mentre conquistava l'Europa, da Parigi a San Pietroburgo, ormai virato in ''camminata voluttuosa''.
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