(ANSA) - MILANO, 20 MAR - FABRIZIO FILIBERTI E MILENA SIMONOTTI, SULLA CATTIVA STRADA-LA SPIRITUALITÀ DI FABRIZIO DE ANDRÈ (MORETTI&VITALI, PP. 216, EURO 15,00) Don Andrea Gallo, abituato a stupire, parlando dell'amico Fabrizio De Andrè non esitò ad affermare che nelle sue canzoni era evidente la traccia del vangelo. Una convinzione così forte che indusse il prete a scrivere un libro ("Sopra ogni cosa") in cui spiegava: ''I lontani, gli esclusi. i reietti del pianeta.
L'immaginario di De André era questo. E come potevo io, prete di strada, non esserne coinvolto?''. A quindici anni dalla morte, un nuovo libro, 'Sulla cattiva strada - La spiritualità di Fabrizio De Andrè' di Fabrizio Filiberti e Milena Simonotti, prende in esame la spiritualità del cantautore genovese.
Analizzando il testo di Via del campo, gli autori accostano gli ultimi due versi (dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori) al motto evangelico ''e molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi'' (Marco, 10,1). ''Il finale, profondamente evangelico - scrivono - dice il programma ermeneutico di questa eresia ed intercetta, anche sul piano artistico, l'altro grande eretico cristiano, Lev Tolstoj. Il suo radicalismo lo portò ad abbracciare l'etica del ''Discorso della Montagna'', delle 'Beatitudini', ma alla fine allontanandolo dalla Chiesa Ortodossa che lo scomunicò nel 1901. Non riconosceva la dottrina cristiana della Trinità, né ''la sacrilega storia di un Dio nato da una vergine e redentore del genere umano'' (Lev Tolstoj, Risposta alla deliberazione del sinodo) né i sacramenti. Il suo è un cristianesimo che accoglie il Cristo uomo e ne fa il modello della vita buona...''.
Come non ricordare allora 'Si chiamava Gesù' di Fabrizio De Andrè e in particolare gli ultimi quattro versi che raccontano l'umanità di Gesù: 'Ebbe forse un po' troppe virtù,/ebbe un nome ed un volto: Gesù./Di Maria dicono fosse figlio/sulla croce sbiancò come un giglio'.
Gli autori parlano di ''Vangelo di De Andrè'' e non di ''Vangelo secondo De Andrè'' spiegando: ''Vangelo qui è da intendersi come 'evanghelion', lieto evento, lieto annuncio, buona novella, evocando la voce che, nel deserto, annunciava e d Israele, in esilio e oppresso, l'arrivo del suo Signore e la liberazione. Vangelo è, da allora - e poi per il tramite di Gesù - la voce che ci raggiunge portandoci parole di autentica umanità, parole che hanno connotato non solo estetico, poetico, ma morale, performativo, costruttivo di coscienze, politico''.
I diseredati sono al centro delle canzoni di Faber. I sottoproletari senza futuro che ha incontrato nei carrugi di Genova, gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani che, come affermò in un'intervista lo colpirono per ''l'abitudine alla sofferenza''. ''In loro - scrivono gli autori del libro - coglie non solo la miseria, ma una condizione che si fa essenziale chiave ermeneutica dell'umanità. Contro ogni possibile appropriazione ideologica, si tratta di assumere quelle persone in situazione, lì dove la sorte, le scelte, i più forti, le hanno collocate, riuscendo a intuire, in quelle figure emblematiche, qualcosa che appartiene, o può appartenere, il destino di ciascuno, di tutti''. De Andrè interpreta meglio di chiunque altro il discorso di Gesù agli apostoli: ''[…] perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi […] In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me''. (Matteo 25, 35,40).
Oltre a quello degli ultimi e dei diseredati, De Andrè ha approfondito nella sua opera il tema della morte. Ha raccontato la morte in guerra (La guerra di Piero) e ha descritto lo sterminio degli indiani (Fiume Sand Creek), ha fatto conoscere ad un grande pubblico L'Antologia di Spoon River e ha cantato la fine di un suicida: La canzone di Marinella e La ballata del Michè e poi Jordie, il ribelle impiccato. Il terzo tema affrontato è senza dubbio quello di Dio, termine che ricorre 88 volte nelle sue canzoni. Nei suoi testi non ha mai nascosto il suo essere anticlericale, ha condannato la chiesa come istituzione ma sarebbe sbagliato definirlo ateo o non religioso.
In un'intervista spiegò bene il suo punto di vista: ''Io mi ritengo religioso e la mia religiosità consiste nel sentirmi parte di un tutto, anello di una catena che comprende il creato e quindi nel rispettare tutti gli elementi, piante e minerali compresi, perché, secondo me, l'equilibrio è dato proprio dal benessere diffuso in ciò che ci circonda''. Fabrizio Filiberti e Milena Simonotti azzardano per Fabrizio De Andrè anche una prospettiva mistica proprio in quella sua capacità di stare sempre fuori, oltre - benché interno - alle dimensioni religiose, morali e politiche incarnate. (ANSA).