Era davvero impresa improba ridurre per il teatro ''Guerra e pace'' di Tolstoj, come hanno fatto Luca de Fusco, che firma anche la regia, e Gianni Garrera, creando un grande spettacolo che dopo Palermo, Prato e Torino arriva dal 4 febbraio all'Argentina Teatro di Roma, che lo produce assieme al Biondo di Palermo e lo Stabile di Catania. Un romanzo monumentale che da oltre 150 anni ci parla di vita, amore, morte, di desiderio di vendetta, perdono, volontà di fare il bene e cadere al male: un'epica narrazione letteraria che, come sempre in Tolstoj, cerca di cogliere, secondo una precisa visione etica, l'intima contraddittoria realtà della condizione umana e in cui da sempre si ritrovano i lettori, compresi quelli di oggi che vi vedono anche riflesse le tragedie di questi anni drammatici, anni di guerre che segnano vita e coscienza di ognuno.
La storia è principalmente quella di due famiglie, padri, figlie e figlie dei Bolkonskij e dei Rostov, tra giochi di potere e amori vagheggiati o corrisposti, corteggiamenti e matrimoni, ma anche soldati feriti e morti durante le guerre napoleoniche, con la campagna di Russia del 1812, arrivando possiamo dire al 1825, che è poi l'anno della rivolta decabrista. Tra i tanti protagonisti, che passano tutti per il salotto di Annette, con Andrej, Sonja e altri, c'è la giovane Nataša, di cui Andrej si innamora ma che sposerà il conte Pierre Bezuchov, che nel romanzo incarna le idee, speranze e delusioni di Tolstoj, e ha un momento cruciale di pacificazione finale nell'incontro col contadino Karatev, che in teatro manca del tutto. A segnare apertura e chiusura dello spettacolo e di due, tre momenti salienti c'è la sentita e credibile Annette di Pamela Villoresi, che commenta e introduce; con lei la vivace naturalezza della Natasha di Mersila Sokoli, poi la Sonja di Eleonora De Luca, il Pierre di Francesco Biscione, l'Andrej di Raffaele Esposito e i tanti altri anche in due parti, tutti applauditi alla fine.
La bella scena di Marta Crisolini Malatesta che propone una scalinata nel cortile, supponiamo, del palazzo dei Bolkonskij con un muro sul fondo crollato, minimo accenno a distruzione e decadenza, con pure un gran lampadario di vetro appoggiato a terra di lato, non ha il coraggio di incidere di più sul senso generale e la vicenda, che trova forza solo nel finale con un suggestivo video che propone il crollo totale del palazzo, rimandando a tutto il mondo violentato dalla guerra, che è anche implicitamente, perché non vi è alcuna attualizzazione, inevitabilmente il nostro, visto che tutti i personaggi, tutti gli attori si ritrovano in scena domandandosi e domandandoci quando l'uomo finirà di fare la guerra e esserne vittima.
In questo spazio, sui gradini, in alto e sotto la scalinata, in un gioco di situazioni, di potere, di alludere a situazioni e luoghi diversi tra Pietroburgo e la campagna, lo spettacolo procede per circa due ore con un buon movimento di entrate e uscite dei dieci attori secondo una tradizionale sapienza che offre l'intreccio ordinato in una serie di episodi e incontri che si rimandano, ma vivono ognuno del suo momento. La linea portante è quella dei rapporti, specie amorosi, tra sospiri, malinconie e sogni di uomini e fanciulle, in parallelo con i giovani chiamati o desiderosi di battersi in battaglia, con i loro entusiasmi e malesseri esistenziali alle prese con le coercizioni del potere e della guerra, tutto espresso in dichiarazioni anche troppo semplici e didascaliche. Un tale ricco insieme di fatti e di sentimenti, soprattutto questi ultimi che soli avrebbero potuto rendere la vita delle pagine e della poetica di Tolstoj ma che andrebbero proposti in maniera più allusiva, cercando quell'intensità che non arriva in un succedersi di dialoghi esplicativi e in, per fortuna rari, casi con battute talmente elementari che divengono difficili da pronunciare in scena.
Un lavoro ben fatto e attento ai particolari, anche sugli attori, che punta alla narrazione di storie di passione sullo sfondo della guerra e funziona senza alcuna sorpresa o rivelazione, come non riuscisse a proporre un centro, una sua reale necessità coinvolgente, allo stesso modo in cui le varie proiezioni che arricchiscono la visione cercano di supplire, con una spettacolarità esteriore, all'assenza di interiorità e senso.
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