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Argentina pieno per il Cechov di Alessandro Serra

intenso e poetico Giardino dei ciliegi del regista di Macbettu

Bella sorpresa, mentre cinema e ristoranti sono deserti, trovare completamente pieno il teatro Argentina plaudente a una replica feriale dell'intenso e bellissimo Cechov del ''Giardino dei ciliegi'' nell'allestimento di Alessandro Serra, regista del sorprendente ''Macbettu'' della scorsa stagione, oggi cooprodotto e in più usato per il proprio Ibsen in arrivo all'Eliseo da Umberto Orsini. Da non perdere, si replica a Roma sino a domenica 8 marzo, poi in tournée con, per ora, tappe principali a Padova (25/29 marzo), Bologna (2/5 aprile), Cuneo (8 aprile).
    Uno spettacolo di grande fascino che forse per la prima volta trova quella lettura da vaudeville tanto auspicata dallo stesso Cechov in giusto equilibrio col senso di tragedia che incombe nella incosciente levità con cui aspettano il disastro annunciato tutti i personaggi, tranne Lopachin (Leonardo Capuano), che rappresenta il nuovo che avanza, la borghesia concreta e imprenditoriale a confronto con la nobiltà che ha ormai perso ogni contatto con la realtà e si lascia scivolare verso la fine. Un testo corale in cui, tranne questa attesa, con l'inevitabile, annunciata conclusione, non accade praticamente nulla al ritorno della nobildonna Ljubov (Valentina Sperlì) nella sua tenuta, ormai gravemente ipotecata e messa all'asta, dopo cinque anni all'estero e aver sperperato tutti suoi averi, con le figlie Anja (Maria Cortellazzo) e Varja (Petra Valentini), e dove vive il fratello Gaiev (Fabio Monti).
    Serra, quasi a realizzare un allestimento che è come all'opposto di quello realista celebre e storico di Visconti, gioca molto sul movimento in un palcoscenico nudo e lavora praticamente solo sugli attori, tutti da ricordare assieme per l'ottimo livello, qualche oggetto di scena (un armadio, delle sedie, un carretto, valigie...) mentre prendono grande rilievo e significato le luci e le ombre, firmate da lui stesso con anche scene e costumi, eleganti, stilizzati nel rimandare modernamente all'epoca. E' l'essenza del teatro, e realizza momenti di vera poesia in questo luogo senza una parete in cui fa prendere vita alle ombre di persone che è come fossero già morte senza saperlo, quindi leggere nel loro essere e muoversi senza voler guardare in faccia l'incombente dramma che li sta tutti travolgendo. Ci sono momenti bellissimi di movimenti corali, amplificati dal moltiplicarsi degli stessi personaggi in un gioco di ombre che è come danzassero incoscienti sull'orlo del baratro, che il giorno dell'asta aspettano ansiosi come sperando in un miracolo che del resto sanno impossibile.
    Sarà Lopachin, figlio di un loro ex contadino, a comprare e lottizzare il Giardino dei ciliegi, dopo che aveva più volte invitato loro stessi per salvarsi a farlo, ma trovano la cosa troppo volgare e non possono pensare in prima persona a distruggere la grande bellezza di questo giardino, quasi fantasmatico quando lo evocano nella sua evanescenza alla luce della luna nel periodo della fioritura. Incombono simboli, belle, intense invenzioni visive di Serra, come l'assordante ruotare infinito della ruota di un carretto rovesciato proiettata grande ombra sul fondo, quasi un allusione all'arcolaio delle Parche, a un tempo che passa rapido verso la fine, o il bloccarsi di tutti i personaggi assieme come in una foto di gruppo, in cui c'è già la malinconia di uno sguardo futuro, sino a particolari quali il bacio col fumo del sigaro tra Anja e l'eterno studente Trofimov. Nessuno riesce a concludere qualcosa veramente, persino Lopachin non riesce a dichiararsi alla pur amata Varja, e tutti alla fine si disperdono per il mondo alla ricerca di un modo per sopravvivere. Nella casa vuota, mentre fuori iniziano i lavori per distruggere il giardino, resta dimenticato il vecchio servo Firs (Bruno Stori), anche lui legato al passato tanto da aver rifiutato a suo tempo la liberazione dalla schiavitù della gleba. (ANSA).
   

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