Per gentile concessione di HarperCollins Italia pubblichiamo l'incipit del primo romanzo di Laura Buffoni, 'Un giorno ti dirò tutto' che sarà in libreria il 16 febbraio.
Ecco l'estratto: "A metà degli anni Ottanta la mia famiglia si è trasferita in un quartiere popolare di Roma. Avevamo bisogno di un posto più grande, io e mio fratello crescevamo e non potevamo più dividere la stessa stanza; senza contare che l'appartamento dove stavamo era esposto a nord, freddissimo, e io avevo sempre la tonsillite. Così i miei avevano scelto un quartiere in una periferia di recente costruzione. Era un posto malfamato ma l'aria era buona, e poi mio padre era convinto che per venire su forti ci dovessimo misurare con la vita vera. Crescere nella bambagia non va bene, amavamo ripetere io e mio fratello, non viviamo nella bambagia, noi. Era il nostro dogma, uno dei tanti.
Perché i genitori decidevano e noi obbedivamo senza fare tante storie, almeno allora. Credevamo in quello che dicevano.
Così, da corso Francia avevamo attraversato il ponte di Mussolini con le aquile monumentali e ci eravamo diretti a sud.
A Roma Nord i ragazzini vestivano Best Company, Uniform, avevano le spalline oversize e paghette stellari con cui andavano al cinema e in pizzeria, ma io non ho fatto in tempo a diventare un'adolescente di Roma Nord, perché a sei anni, in un vertiginoso stacco nel montaggio sconnesso della mia infanzia, mi sono trovata in trincea.
Il Laurentino 38 era progettato per diventare il simbolo dell'edilizia popolare anni Settanta: una città per la gente, microcosmo funzionale e autosufficiente con appartamenti piccoli e tutti uguali, anonimi ma dignitosi, all'interno di grandi torri e palazzoni cilindrici collegati da ponti per ospitare negozi e luoghi di aggregazione. Un'utopia le cui strade avevano i nomi dei grandi romanzieri dell'Ottocento e che si era subito scontrata con la Realpolitik o con la follia degli amministratori. I presto famigerati ponti erano diventati un ghetto, campo di concentramento per derelitti in cui si metteva in scena un esperimento sociale perverso: cosa succede se prendiamo criminali, spacciatori, ruffiani, tossici, ex galeotti, e li mettiamo tutti insieme, fianco a fianco, pianerottolo su pianerottolo, in una piccola comunità chiusa? Succede qualcosa come la versione romana del Bronx dei Guerrieri della notte, dove a farla da padrona era la terribile famiglia W. in cui tutti - pure i bambini - avevano in eredità un dente d'oro e gli occhi strabici per guardarsi le spalle.
Nella mappa c'ero anch'io, un pallino tremulo su cui puntava la freccia con scritto you are here. Dritta dritta nel cuore del labirinto: i ponti si sviluppavano infatti in un semicerchio, e in mezzo sorgeva un piazzale con due grandi cubi ancora in cantiere, che sarebbero diventati le scuole elementari e medie che avrei frequentato. La strada che portava al piazzale era costeggiata da una fila di palazzi a gradoni di mattoni rossi, ognuno col suo giardino ben curato con alberi da frutto e mimose. Gli appartamenti erano ampi e luminosi, abitati da professionisti e impiegati, gente come noi. Erano le cooperative, ed era lì che eravamo andati a stare, in un'isola di decenza circondata da un mare di cemento e siringhe. Le ampie finestre delle case a gradoni di via Gadda affacciavano sull'altro mondo abitato dai giganti cupi e già fatiscenti di via Kafka, Gogol', Balzac, Melville. Nel periodo di Natale si illuminavano di neon colorati e odora- vano di polvere da sparo.
Per essere esatti, le mie finestre affacciavano sugli ultimi tre ponti, ernono erdieci e llundici, i più criminali, che oggi sono stati abbattuti; posti maledetti, devastati e senza servizi: persino la stazione di polizia appena inaugurata era stata assalita, saccheggiata e costretta a chiudere in pochi mesi. Dai ponti si giocava a lanciare pietre sullo stradone in basso, qualche volta nell'euforia un televisore o un motorino, mentre i tossici più deboli si dondolavano sulle altalene nelle piazzole con i giochi per bambini. Anche i negozi erano stati dati alle fiamme e negli anfratti dei ponti, senza bagno né cucina, si erano insediati gli occupanti. C'era un tizio, mio compagno di classe alle scuole medie, che aveva intrapreso un business molto redditizio: era riuscito a entrare nelle centraline dell'Enel per creare allacci abusivi della corrente elettrica negli alloggi occupati. Per il servizio chiedeva il pizzo, se poi qualcuno non pagava andava a riscuotere di persona. Aveva una cicatrice sulla guancia che sembrava tatuata (per via dell'asfalto che era entrato sottopelle, si diceva) e un coltello a serramanico sempre stretto in pugno, anche in classe.
Quando leggeva, lui già quasi adulto alle medie, ogni poche parole faticosamente conquistate ci metteva in mezzo un "poi" (spesso con quel "poi" vocalizzava una virgola): "Quel ramo del lago di Como poi che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti poi tutto a seni e a golfi poi a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli poi vien poi quasi a un tratto poi a ristringersi...".
Nessuno osava deriderlo e nemmeno guardarlo negli occhi. Tranne un piccoletto cattivissimo, tale Veniero, che un giorno gli aveva condito il diario con uova sode e salame e gliel'aveva sistemato tutto infiocchettato sul banco. Manolo, questo era il nome del mio compagno, lo aveva soppesato con calma, aveva iniziato a sfogliarlo mangiandone piano il contenuto, poi si era pulito la bocca con la manica della felpa, aveva ruttato, 'Ecco a che serviva 'sto coso!' aveva riso, e tutti ci eravamo sentiti meglio.
Da allora nessun altro gli ha mai più fatto uno sgarro. Ci aveva però provato un paraplegico che abitava al ponte tra via Kafka e via Melville in un alloggio ricavato con fantasia da un corridoio del centro anziani mai nato: un bel giorno si era rifiutato di pagare il pizzo. Manolo però quella volta non aveva riso e gli aveva squagliato la faccia sulla fiamma di una candela".
¸️2024 Laura Buffoni. Pubblicato in accordo con PAL/Piccola Agenzia Letteraria ¸️ 2024 HarperCollins Italia
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