(di Paolo Petroni)
(ANSA) - ROMA, 29 NOV - Gli scandalosi ''Canti di
Maldoror'' sono prose paradossali con spunti realistici noir che
sembrano quelli di certi romanzi d'oggi, ma riscattati da uno
stile apocalittico che nasce da immagini allucinate e misteriose
e gioca parodisticamente sui procedimenti dei foschi romanzi
neri d'epoca e di quel grand guignol popolare che sarebbe
diventato di moda a Parigi dopo pochi anni la morte dell'autore,
il conte de Lautréamont, al secolo Isidore Luciene Ducasse,
scomparso improvvisamente a 24 anni esattamente 150 anni fa a
fine novembre 1870 e considerato poi, mezzo secolo dopo, da
Breton un anticipatore del Surrealismo.
Per l'occasione Castelvecchi pubblica in italiano una
biografia romanzata sulle poche basi documentarie di Lautréamont
intitolata ''Non lascerò memorie'' scritta dall'uruguaiano
Ruperto Long (pp. 256 - 18,50 euro - Traduzione di Roberta
Arrigoni). Del resto in Uruguay, a Montevideo era nato il nostro
il 4 aprile 1846, dove suo padre lavorava al Consolato Francese
e dove sua madre si suicidò quando lui aveva 13 anni e venne
spedito in Francia, in un duro collegio a Trabes per finire gli
studi e l'anno dopo passato al Liceo di Pau, pare in seguito
allo scandalo di una adombrata omosessualità del ragazzo e due
suoi giovanissimi compagni di scuola, che finiranno poi con
insegnanti e tutto nei suoi scritti.
La scrittura è evidentemente una sua passione, rifugio e via
di fuga, e attorno ai vent'anni inizia proprio i ''Canti di
Maldoror'' e nel 1868 pubblica anonimo il primo e il padre
l'anno dopo lo aiuta a trovare chi stampi tutta l'opera composta
di sei canti e che viene firmata con lo pseudonimo di Compte de
Lautréamont. Gli editori, gli stessi di Baudelaire, Lacroix e
Poulet però non la distribuirono per pura della censura. Oggi ne
troviamo in italiano tre edizioni, nelle collane economiche
della Bur, di Garzanti e di Feltrinelli.
A proposito di queste pagine, ''scritte in una prosa d'ampio
respiro, tumultuosa e frenetica'', come la definì Diego Valeri,
in una lettera l'autore, cercando di mitigarne l'impatto,
dichiara di aver voluto ''cantare il male, come han fatto
Mickiewickz, Byron, Milton, Southey, Alfred de Musset e
Baudelaire ... naturalmente esagerando il diapason per fare del
nuovo nel senso di quella letteratura sublime che non canta la
disperazione per opprimere il lettore e fargli desiderare il
bene come medicina''. Ma è proprio per questo che André Breton
nel 1919 sosterrà che il suo lavoro rimette in discussione il
linguaggio andando oltre La liquidazione di un certo
romanticismo imputridito dal languore. E' infatti un libro
visionario per molti versi, ambiguo e cruento il cui
protagonista, ribelle e enigmatico, messa da parte la realtà, si
abbandona totalmente all'immaginazione e all'inconscio
ritrovandosi immerso in un mondo di miseria e e malvagità, che
oggi ci appare molto più chiaro di come poteva sembrare ai suoi
tempi.
Lautréamont, vista l'impossibilità di render pubblici i
''Canti'', sperimenta un tono diverso, una scrittura più ironica
e giocata tra speranza e disperazione esistenziale nelle sue
''Poesie'' di cui usciranno due volumi postumi. E' qui che
scrive: ''Esiste una convenzione non troppo tacita tra l'autore
e il lettore, / secondo la quale il primo si definisce malato e
accetta l'altro come infermiere. / E' il poeta che consola
l'umanità!'' aggiungendo che è ora di ''riprendere in mano il
filo della poesia impersonale''. La prosa è costruita come ad
incastro tra brevi frasi e lunghi periodi carichi di elenchi di
aggettivi e sostantivi fino a costituire ''un vero blocco''
granitico, come lo definisce Maurice Blanchot. Sono pagine più
ambigue e complesse pervase da un fervore costruttivo al
contrario di quello didascalicamente distruttivo dei ''canti''.
Così Isidore Ducasse, considerato a lungo una specie di folle
dannato, rinasce alla modernità con Breton, per il quale ''il
costante bisogno di una dimostrazione per assurdo non deve venir
considerato un segno di irragionevolezza'' e che vede come una
sorta di parola d'ordine l'affermazione ''la poesia deve essere
fatta da tutti, non da uno''. (ANSA).