(di Paolo Petroni)
Se una cosa ci ricorda questa
pandemia è che la natura è sempre più forte, più resistente
dell'uomo. Non per nulla molti scrittori (e poi drammaturghi,
registi di film e artisti diversi) da sempre hanno raccontato e
creato storie esemplari, tra cronaca e metafora, su pestilenze,
epidemie e altri cataclismi che cancellano o quasi il genere
umano dalla terra. Allora questi romanzi, queste cronache di day
after, queste supposizioni di arrivo al limite e di salvezza in
extremis, con cui viviamo una qualche consonanza, possono essere
qualcosa che ci aiuta a capire e riflettere su quel che ci sta
accadendo in questo inizio 2020, magari a metabolizzarlo in
qualche modo, così da ripartire, come si dice ora, sapendo
almeno un poco di più chi siamo.
Due cronache della peste possono essere allora interessanti,
anche se distanti l'una dall'altra più di mille anni, quella di
Atene del 430 a.C. di cui ci riferisce lo storico Tucidide nel
suo ''La guerra del Peloponneso'' e quella di Londra del 1665 di
cui scrive Daniel Defoe, l'autore di Robinson Crusoe, legata
alla lontana a quella di Milano del 1630 di cui parla Manzoni
nei 'Promessi sposi' e alle tante altre che infestarono l'Europa
in quel XVII secolo.
Ad Atene il male esplode durante l'invasione e l'assedio dei
Peloponnesiaci e la situazione si fa subito grave con caratteri
che sono evidentemente sempre gli stessi: ''I medici non
riuscivano a fronteggiare questo morbo ignoto, ma, anzi,
morivano più degli altri, in quanto più degli altri si
avvicinavano ai malati, né alcuna tecnica umana veniva loro in
soccorso. Per quanto si formulassero suppliche nei templi o si
ricorresse agli oracoli e a cose del genere, tutto si rivelò
inutile''. E lo storico, perché se tornasse si potesse subito
riconoscere, ne descrive i sintomi: ''All'improvviso le persone
venivano prese da vampate di calore alla testa, arrossamento e
bruciore agli occhi. La gola e la lingua assumevano un colore
sanguigno ed emettevano un odore sgradevole. Dopo questi sintomi
sopraggiungevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il
male scendeva al petto con una forte tosse; e quando raggiungeva
lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bile e forti
dolori''. Fu una vera ecatombe con la gente sempre più
scoraggiata e impotente, tanto che ''anche il compianto sui
morenti alla fine era trascurato, per stanchezza, persino dai
familiari, sopraffatti dall'immensità della sciagura. E molti
usarono modi di sepoltura indecenti''.
La stessa peste di Atene venne ricordata anche quattro secoli
dopo da Lucrezio nel ''De rerum natura'' ma con un taglio
diverso dalla cronaca e come spunto di riflessione.
Defoe, al tempo della peste di Londra, aveva due anni e non
era in città, scrive così il suo ''Diario dell'anno della
peste'' sessanta anni dopo ma con una vivacità, una
documentazione e una scrittura che sembrano in presa diretta:
''Vorrei poter restituire il suono esatto dei lamenti e delle
invocazioni che ho udito da alcuni poveri moribondi... in
maniera così efficace da suscitare emozione nell'animo del
lettore''. Si parla del libro, infatti, anche come di un romanzo
storico noir che ha la forma del diario quotidiano che l'autore
dice scritto in prima persona da un sellaio indicato, a fine
volume, solo con le iniziali H.F.
Così, da gran scrittore realista, Defoe ci immerge
nell'orrore quotidiano tra gente impazzita, persone che corrono
nude per strada, accanto ad altri che ne approfittano per
saccheggiare o darsi a vizi sfrenati e raccapriccianti, mentre i
carri carichi di morti precipitano nelle fosse comuni i cadaveri
assieme a alcuni ancora vivi: ''Questo modo di seppellire era
l'unico possibile, dato il numero prodigioso di defunti che non
permetteva di provvedere delle bare''. C'è chi fa incetta di
provviste, chi fugge in campagna dove ben presto arriva anche la
peste in un susseguirsi di descrizioni da vero narratore,
raccontando casi e casi individuali con anche dialoghi, sempre
dando per scontato che ''nulla può succedere senza l'ordine o il
permesso del Signore'' di cui il morbo è un preciso castigo, col
''contagio che avveniva a mezzo di vapori o fumi che attaccavano
i sani che s'avvicinavano ai malati. Questo lo dico contro
l'opinione di quanti sostenevano che fosse a mezzo di insetti e
altre invisibili creature che, volando, si introducevano nel
corpo delle persone col respiro''.
Più strumentale a un discorso diverso e quindi poco chiara
e imprecisa è la peste del 1348 cui allude Boccaccio quale
origine del suo ''Decamerone'': ''Pervenne la mortifera
pestilenza, la quale o per operazion de' corpi superiori o per
le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione
mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti
orientali era incominciata''. Lo steso vale per la peste nella
Milano dei ''Promessi sposi'' che Manzoni racconta più nei
risvolti sociali che affrontando la malattia in sé. Ma per chi
di questi tempi incuriosito volesse approfondire, aldilà delle
testimonianze letterarie, rimandiamo a una ''Storia delle
epidemie'' del virologo brasiliano Stefan Cunha Ujvari (Odoya,
pp. 350 - 20,00 euro), appena arrivata in libreria.
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