'La misura del dubbio' è un legal thriller che viene dalla Camargue, tratto da una storia vera e firmato e interpretato da un Daniel Auteil in grande forma. È lui infatti il problematico avvocato Jean Monier che non accetta più casi di giustizia penale da quindici anni ovvero da quando ha fatto assolvere un assassino recidivo, ma l'incontro con Nicolas Milik (Grégory Gadebois), padre di famiglia con cinque figli accusato dell'omicidio della moglie, gli fa cambiare idea.
Convinto dell'innocenza del suo cliente, è disposto a tutto pur di fargli vincere il processo in corte d'assise, ritrovando in questo modo il senso della sua vocazione.
Nel cast del film - in sala da oggi con BiM Distribuzione, dopo essere stato presentato al 77° Festival di Cannes fuori concorso -, anche Sidse Babett Knudsen e Alice Belaïdi.
La sceneggiatura, a cura di Steven Mitz e dello stesso Auteuil, è un adattamento di 'Au Guet-Apens, chroniques de la justice pénale ordinaire' di Jean-Yves Moyart (sotto lo pseudonimo di 'Maître Mô') pubblicato da Éditions Les Arènes. Tutto infatti nasce dal blog di questo avvocato penalista oggi scomparso che Auteuil ha scoperto grazie alla figlia Nelly.
"Quando ho ascoltato il caso di Milik mi ha sconvolto - dice Daniel Auteil -. E se mi sono lanciato in questo film, è stato innanzitutto per la voglia di impadronirmi della personalità di quell'imputato. Mi è sembrato di rappresentare quelle persone che non hanno la parola e si ritrovano così indirettamente fragilizzate. E, attraverso lui (associato a un difensore, ossia a qualcuno per il quale la parola rappresenta l'essenza stessa del suo mestiere), "La misura del dubbio" è un film che ruota molto vicino all'essenza stessa dell'essere umano".
Qual è stato il primo obiettivo del film? "Parlare della provincia attenendomi a questo blog che non raccontava la storia di un grande penalista parigino né dei grandi casi giudiziari mediatizzati. Il caso Milik ha tutte le caratteristiche del crimine ordinario, come sfortunatamente se ne contano tanti ogni giorno. E nel film, racconto come gli elementi di un processo sono in fondo di una banalità estrema e come le giurie condannino o assolvano basandosi su poche certezze reali. A partire da questo presupposto - continua l'attore-regista -, ho voluto sviluppare un film di genere sposando l'indagine psicologica condotta da un avvocato".
Chi è davvero Jean Monier, l'avvocato difensore che lei interpreta? "È un uomo traumatizzato e che di conseguenza si è dedicato a casi correnti, ordinari, banali. È un individuo piuttosto fragile, ma che ha mantenuto, almeno in parte, una speranza nel suo mestiere".
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