Novantuno anni il 22 maggio. Ma
Roberto Fischer non ha voluto mancare l'appuntamento a Cagliari
con l'inaugurazione della mostra con 140 opere della sorella
Eva. E allora ha preso l'aereo e da Roma ha raggiunto la
Sardegna. Anche perché il suo racconto è importante per spiegare
la parentesi pittorica di Eva Fischer dedicata all'Olocausto.
Immagini tetre e claustrofobiche di gabbie, prigioni e di scarpe
abbandonate perché chi le indossava era magari finito nelle
camere a gas. Una vita a scappare dai tedeschi. "Noi abitavamo a
Belgrado - ha raccontato Roberto Fischer - e, da un giorno
all'altro, ci siamo visti i tedeschi nelle nostre strade. Io
avevo 11 anni, ma Eva ne aveva 21. Noi ebrei siamo stati
ammassati: ci hanno fatto indossare le uniformi con le stelle
gialle. Mia sorella veniva mandata a lavorare, ma la sera
ritornava a casa. Mio padre, che era rabbino, pensava di non
essere preso. E invece un giorno lo hanno portato via. Per
lavorare, dicevano i tedeschi. E invece abbiamo saputo che era
stato fucilato nelle campagne insieme agli ultimi preso a
Belgrado". E allora da soli, un bambino, la sorella e la madre.
"Avevamo paura - ha raccontato - e allora mia madre ha deciso di
vendere tutto quello che avevamo per procurarci dei documenti
falsi. Da un giorno all'altro ci siamo chiamati Petrovic. E
siamo scappati verso Spalato perché c'erano gli italiani e la
situazione era più tranquilla".
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