Lasciato solo dallo Stato dopo
aver denunciato e fatto condannare il killer di don Peppe Diana,
costretto ad andarsene da Casal di Principe perché minacciato e
ridotto allo stremo perché nessuno entrava nel suo negozio per
fare delle foto. E' un duro atto di accusa contro lo Stato
quello lanciato in Commissione Antimafia da Augusto Di Meo,
testimone oculare dell'omicidio del sacerdote Don Peppe Diana,
avvenuto il 19 marzo del 1994 a Casal di Principe (Caserta).
Di Meo non è mai stato però riconosciuto dalle istituzioni
come testimone di giustizia - nel 1994 non c'era la legge,
entrata in vigore solo nel 2001 - e non ha avuto alcun sostegno
economico: unico riconoscimento quello di ufficiale al merito
della Repubblica Italiana conferitogli dal capo dello Stato
Mattarella e da qualche mese di consulente dell'Antimafia,
presieduta da Chiara Colosimo.
"Pensavo - ha detto oggi - che dopo aver denunciato il killer
di don Peppe (Giuseppe Quadrano, ndr), lo Stato sarebbe venuto
da me, ed invece sono stato abbandonato al mio destino. Dopo il
delitto, per paura e perché minacciato, chiusi il laboratorio di
fotografia in cui avevo cinque collaboratori e mi trasferii a
Spello (Perugia), e da lì tornavo da solo, a mie spese, nel
Casertano, per gli atti di indagine, come il riconoscimento
dell'assassino, e per il processo al killer di don Peppe. Quando
mi recavo al tribunale di Santa Maria Capua Vetere, mi
definivano 'spione', 'infame'. Vivevo nel terrore, mi sentivo
solo, e nessuno mi ha mai dato consigli su come muovermi per
aver qualche beneficio, così mi sono affidato ad un legale,
Gianni Zara".
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