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Nelle maglie della legge ci finiscono anche ragazzi

Nelle maglie della legge ci finiscono anche ragazzi

10 gennaio 2023, 15:53

Redazione ANSA

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In questo dedalo di processi e inchieste spesso, in Italia, ci finiscono anche ragazzi, quasi bambini, a volte processati e incarcerati come adulti, accusati di scafismo al momento dello sbarco sulle coste italiane. Viaggi al limite come quelli di Saidu Bangura, oggi 22enne, scappato dalla Sierra Leone quando aveva 13 anni, e di Joof Ousaineau, nato nel 1999 a Barra, vicino a Banjul, la capitale del Gambia, e arrivato a Pozzallo a 16 anni. Saidu e Joof sono solo due di un numero imprecisato di minori stranieri non accompagnati arrestati sulle nostre coste perché individuati come coloro che guidavano la barca. Entrambi erano minorenni al momento dello sbarco (Saidu avrebbe compiuto 18 anni il giorno dopo) ma sono stati processati come maggiorenni, passando anche molto tempo in un carcere per adulti.

Il collettivo europeo di giornalisti Lost in Europe (lostineurope.eu), che dal 2018 racconta le storie dei minori stranieri non accompagnati che arrivano in Europa, ha cercato insieme all’ANSA di analizzare il fenomeno dei minorenni che per sbaglio sono finiti in carcere come adulti e dei ragazzi accusati in Italia di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.

L’Ipm, Istituto Penitenziario Minorile di Catania, dal 2013 inizia a riempirsi di ragazzi stranieri accusati di favoreggiamento all’immigrazione a cui veniva applicato (per gli istituti minorili non accade più dal 2018) l’art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario che vieta la concessione di benefici. "Molti erano semplici pescatori", spiega Elvira Iovine del Centro Astalli di Catania, volontaria al carcere minorile. "Per questo conoscevano il mare e sapevano guidare la barca". Secondo la direttrice dell’Ipm, Maria Randazzo, all’epoca sono arrivati in 5 anni almeno 50 ragazzi. "Venivano indicati come quelli che avevano un ruolo da leader nell’imbarcazione", racconta. "Distribuivano acqua, cibo, a volte guidavano, ma erano in realtà utilizzati per le loro competenze tecnologiche, per l’uso del cellulare, per la lingua - parlavano inglese o francese e potevano farsi capire da tutte le persone a bordo. Ma non avevano alcun guadagno, non erano parte dell’organizzazione del viaggio".

Joof ha sempre negato di aver guidato alcunché: anzi, ha sofferto il mal di mare per tutto il viaggio e al momento del salvataggio è stato anche ricoverato in ospedale per disidratazione. Saidu racconta invece che sì, il barchino lo guidava. "Non sapevo fosse un crimine. Che altro potevo fare? Cercavo di salvarmi la vita. Di salvarci la vita", dice. Erano stati i libici a insegnargli ad accendere il motore, minacciandolo di morte. Né Joof né Saidu hanno ancora, a molti anni di distanza, messo la parola fine alla loro vicenda giudiziaria.

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

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