Di Alessio Jacona*
«L’IA rischia di passare dall’essere un mezzo per la crescita e la prosperità a diventare un fine, con le priorità delle aziende e le esigenze degli essere umani che devono adattarsi agli algoritmi, invece del contrario». A parlare è Massimo Chiriatti, Chief Technology & Innovation Officer di Lenovo Italia, che suggerisce maggiore prudenza e buon senso quando si utilizza l’intelligenza artificiale per abilitare l’empowerment di imprese e persone.
Esperto di innovazione, Chiriatti è autore di diversi testi e libri sul tema dell’IA tra cui “Incoscienza artificiale - Come fanno le macchine a prevedere per noi” e “#Humanless. L’algoritmo egoista”. Un tecnologo che oggi è preoccupato innanzitutto dalla narrazione che circonda l’AI: questa, infatti, spesso è deformata sia «dagli evangelisti che, con i loro eccessi, si rivelano troppo ottimisti» e propongono strumenti ai-based come la soluzione a ogni problema; sia da chi, all’opposto, focalizza l’attenzione solo sui rischi e i limiti di queste tecnologie, prima fra tutti la possibilità che esse sostituiscano l’uomo rendendolo superfluo.
Un timore ingiustificato per varie ragioni, secondo Chiriatti, visto che, ad esempio: «tutto ruota intorno ai dati, alla loro qualità e reperibilità e soprattutto alla loro interpretazione, che richiede comunque il giudizio umano». Non solo: anche quando interagiamo con un assistente digitale che sembra capire cosa diciamo, oppure utilizziamo un generatore di testi che sembra in grado di scrivere frasi di senso compiuto, ciò che vediamo è solo una macchina che «sa fare sintassi perché indovina la relazione tra parole, ma non ne comprende la semantica, cioè la relazione tra parole e realtà».
Quindi l’essere umano è sempre insostituibile?
«Dipende. Non è vero quando si tratta di svolgere lavori ripetitivi, automatizzati o di precisione, dove è la macchina che deve stare al centro, mentre all’essere umano spetta il compito di vegliare su entrambi gli estremi del processo: da un lato, assicurandosi che i dati in input siano appropriati e, dall’altro, controllando l’output per poi applicarne i risultati».
Con l’IA stiamo cambiando profondamente le macchine che utilizziamo. In che modo?
«Prima avevamo macchine estremamente semplici il cui compito era estendere la capacità umana. Poi abbiamo avuto le macchine automatiche, nelle quali abbiamo inserito la nostra creatività in forma di codice informatico, creando cose come la calcolatrice o il pc. E poi, ora, abbiamo anche le macchine autonome: la differenza è che, mentre le macchine automatiche funzionano con regole e dati che abbiamo inserito noi per fornire un risultato deterministico, le macchine autonome, al contrario, lavorano secondo un processo induttivo. Succede, ad esempio, con le automobili a guida autonoma, che devono affrontare l'imprevedibilità delle strade e per le quali non è possibile scrivere in anticipo regole che diano risposta ad ogni situazione. Abbiamo dovuto metterle in condizioni di imparare leggendo i dati e facendo esperienza».
Alla luce di ciò, come si evolve la relazione tra essere umano e macchine?
«Siamo contemporaneamente vicinissimi e lontanissimi. Vicini nello spazio, perché utilizziamo e persino indossiamo continuamente tecnologia, e spesso ci adeguiamo ad essa
per superarne le imperfezioni. E poi però siamo lontanissimi nel tempo, perché noi abbiamo impiegato milioni di anni per evolverci e diventare sapiens, mentre è impossibile implementare capacità come le nostre sul silicio. Non esistono macchine intelligenti o coscienti. Alla fine è solo statistica. Spesso le macchine ci illudono di saper fare le nostre cose, ma non è sapienza, solo antropomorfismo eccessivo».
Perché oggi si parla così tanto di IA?
«Per fare l'intelligenza artificiale servono dati, grande capacità computazionale e algoritmi sempre più complessi. Prima gestire questi tre elementi richiedeva risorse ingenti, mentre oggi assistiamo a un drastico crollo dei costi. Prendiamo ad esempio l’aspetto computazionale: ora l’azienda può scegliere se avere l'hardware on-premise acquistandolo secondo il modello tradizionale, se averlo in cloud o, ancora, se acquistare un server di proprietà pagando una quota negli anni in funzione dell’uso reale. In questo modo i costi dell’IA si adattano al business, secondo una formula che in Lenovo chiamiamo TruScale, rendendoli alla portata di tutti».
Quali sfide impone la costante crescita di potenza dell’hardware?
«I data center continuano a crescere di potenza e, di conseguenza, aumenta la loro richiesta di energia e produzione di calore. La sfida per Lenovo è contenere i consumi riducendo gli sprechi, nonché rendere l’hardware più efficiente sviluppando tecnologie di raffreddamento sempre più efficaci. La strada che abbiamo scelto è quella del raffreddamento ad acqua con la nostra tecnologia Neptune, e l’obiettivo è creare il mix di potenza, prestazioni e consumi adatto a ciascuna azienda, come prescrive il nostro mantra “Smart Technology for All”».
Quali sono le priorità del prossimo futuro?
«Premesso che il futuro non lo conosce nessuno, credo che la nostra priorità dovrebbe essere creare nuovi sistemi intorno alle macchine: accanto all’innovazione tecnologica che corre dobbiamo fare innovazione sociale, culturale e politica affinché noi si abbia gli strumenti per trarre il meglio da queste tecnologie».
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