(ANSA) - MILANO, 24 MAG - "Lo Stato deve riconoscere il suo
errore e di aver sbagliato, qua non è solo in discussione il
risarcimento per i danni che ho subito, anche economici, ma
l'ammissione dell'errore che è stato fatto nei miei confronti".
Lo ha spiegato ai cronisti Stefano Binda, il 53enne assolto nel
gennaio 2021 in via definitiva dall'accusa di avere ucciso la
studentessa Lidia Macchi, con 29 coltellate in un bosco a
Cittiglio (Varese) nel 1987, dopo aver passato 3 anni e mezzo in
carcere, tra il 2016 e il 2019, e che ha chiesto un "indennizzo"
di oltre 350mila euro per l'ingiusta detenzione patita. Istanza
che è stata discussa oggi davanti alla Corte d'Appello di
Milano.
Una richiesta a cui la Procura generale di Milano e
l'Avvocatura dello Stato si sono opposti e sui cui dovranno
decidere i giudici della quinta sezione penale d'appello
(presidente del collegio Antonio Nova), dopo che stamani si sono
riservati. Quando Lidia Macchi venne uccisa, ha ribadito in aula
l'avvocato Patrizia Esposito, che assiste Binda (anche lui
presente) assieme al collega Sergio Martelli, "lui non era a
Varese" e la sua testimonianza "è stata riconosciuta e mai
smentita". E ancora: "Si è sottoposto subito all'esame del dna e
ha sempre detto che quella lettera anonima, presunta prova
regina nel processo, non l'aveva scritta lui". E su tutto pesa
la "sentenza definitiva di assoluzione del gennaio 2021" a cui è
seguita l'istanza per l'ingiusta detenzione.
Malgrado ciò, hanno fatto notare i legali, Procura generale e
Avvocatura dello Stato si sono opposti alla richiesta,
richiamando, tra l'altro, nei loro atti ancora "la storia dei
presunti sei alibi diversi" di Binda e le parole di una teste
che disse di aver visto la sua auto. (ANSA).
Delitto Macchi: Binda,Stato riconosca errore e mi indennizzi
'Con 350mila euro'. Istanza ingiusta detenzione dopo assoluzione
