(di Francesco De Filippo)
Sebastiao Salgado, brasiliano di
quella regione-continente che si chiama Minas Gerais, è
penetrato e si è compenetrato nella e con l'Amazzonia, si è
fatto indigeno, ha condiviso i silenzi delle ampie vallate, ha
imparato a interpretare i versi degli animali e ad ascoltare le
vibrazioni delle piante e il frullare delle ali degli uccelli.
Animato dallo spirito e dal coraggio degli antropologi
predecessori perfino di Claude Lévi-Strauss, ha saputo farsi
accettare da tribù ignare dell'esistenza di un mondo per loro
nemmeno inimmaginabile. Quegli studiosi erano meno visibili, i
loro strumenti erano matite e taccuini, quello di Salgado è un
impatto più invadente, quello della macchina fotografica. Lui ha
compendiato sette anni in giro per l'Amazzonia in una mostra
inaugurata oggi a Trieste, "Amazonia".
Vi si trovano tribù dai nomi impenetrabili - Yanomami,
Kuikuro, Waurà, Zo'è, Awa-Guajà - che vivono nudi in un
invidiabile equilibrio con la Natura e spettacolari scenari che
lasciano senza fiato, sistemati in un allestimento curato dalla
moglie, Lelia Wanick, che spesso ha viaggiato con lui, che nei
duemila metri quadrati nella semioscurità creata nel Salone
degli Incanti ha tentato di ricreare l'habitat amazzonico. Se ai
suoni ci ha ha pensato Jean Michel Jarre con musiche originali,
Lelia ha costruito al centro tre "ocas" (baracche) dove il
visitatore si può immergere e vedere video di indigeni. Le oltre
200 foto, grandi e rigorosamente bianco/nero, con gli immensi
panorami amazzonici sono esse stesse luce e riflessi. Gli
indigeni, invece, hanno tutti un nome (forse un cognome?) che
assicura loro una identità, e sono ripresi mentre giocano,
cacciano oppure in posa come le tradizionali 'family pic' dei
summit politici, con tanto di ornamenti e tratti colorati sul
corpo. Il fotografo ha conosciuto 12 tribù e delle foto che ha
scattato loro e di quelle dei panorami, ha fatto un messaggio
planetario che mostra la potenza e la fragilità della natura. I
suoi scatti lanciano un monito al genere umano sui pericoli
della distruzione di questo ecosistema, apparentemente
sterminato ma nella realtà sempre più spaventosamente
ridimensionato.
"Spero che questo mio non sia il reportage storico di un
mondo scomparso ma che serva per attirare l'attenzione di tutti
per proteggere questo spazio". È l'auspicio di Salgado. Questo
inestimabile patrimonio naturale "può essere perso ma può anche
essere conservato, dipende da noi tutti. Dobbiamo metterci
d'accordo per proteggere queste foreste". Sono queste a "fornire
il legno per tutti noi con il disboscamento, poi il suolo viene
coltivato a soja per ingrassare i maiali che mangiate in Italia,
per esempio", ha spiegato. Ma l'Amazzonia "è il più grande
spazio al mondo che fornisce umidità, e quelle correnti d'aria
ci servono per sopravvivere; è il più grande ricettacolo di
biodiversità e il più grande serbatoio di acqua dolce del
pianeta. Quindi dipende da tutti noi attirare l'attenzione e
conservare questo spazi". Lui ha cominciato da tempo la difesa
dell'ambiente, con due sponsor di provata sensibilità ecologica:
la illycaffè, con la quale trenta anni fa è cominciata una
collaborazione trenta anni fa, e la Zurich. Centinaia di
migliaia di alberi già piantati ed è solo l'inizio.
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