(di Francesco De Filippo)
(ANSA) - TRIESTE, 31 GEN - FEDERICA MARZI, LA MIA CASA
ALTROVE (BEE ESTENSIONI; 17 EURO; PP 326). Rimasta a Trieste per
l'estate mentre i genitori Selma e Zeliko e la sorella Majda,
più piccola, come ogni anno tornano in patria, in Bosnia, a
Zvornik quest'anno, la giovane Amila comincia a lavoricchiare
sul Carso, a Bristie (Brisce in sloveno), dando una mano nelle
faccende domestiche a due anziani, Norina e suo marito, Mariano,
esuli istriani riparati a Trieste nel dopoguerra. Sono due
famiglie 'straniere' le cui storie si intrecciano nella
indefinita città di confine che è Trieste, famiglie dai
sentimenti duri come pietre, inamovibili come montagne; solo un
altro sentimento - leggero, fresco e inatteso - può rendere
friabile e addomesticabile quel minerale e spingere
all'autocomprensione e all'assoluzione, per se e gli altri.
Emigrare è come ficcarsi in un labirinto psicologico.
Emigrare per sfuggire a una guerra è come finire in un labirinto
dagli angoli stretti e spigolosi e dai continui rimandi di
frastornanti specchi. Un percorso di generazioni che sfocia nel
multiculturalismo, nel migliore dei casi, raramente
nell'interculturalismo. Federica Marzi conosce la sensazione di
sentirsi diversa in un Paese che è quello dove ti sei fermata
dopo essere fuggita dal tuo, la chiama 'stranieritudine', e la
scompone in 'stranieraggine' e rettitudine. Il suo libro' La mia
casa altrove' è tappa, punto ristoro nella lenta maratona che
porta chi è stato sradicato a ritrovare se stesso. O, almeno, a
tentare.
Un percorso di generazioni, appunto, che una persona
interessata, può apprendere dai libri di storia, dai racconti
dei protagonisti, dalla narrativa. 'La mia casa altrove'
intreccia due episodi della Storia molto noti: l'esodo degli
italiani d'Istria quando i titini presero il potere e quel
mattatoio che fu la guerra nei Balcani. Se finora gli studi
storici e storiografici hanno ricostruito quanto accaduto, la
pubblicistica narrativa è ferma nella maggior parte dei casi a
qualche anno fa. Federica Marzi dunque, sposta l'asticella
cronologica in avanti di una generazione. Nel senso che i
protagonisti non sono (solo) gli istriani che ripararono a
Trieste per finire nel duro campo profughi di Padriciano
(Padrice) - come aveva delicatamente descritto Marisa Madieri in
Verde acqua - ma i figli e i nipoti di quelli, sparpagliati per
il mondo. Non sono nemmeno solo i dijasporci, i bosniaci che si
rifugiarono (anche) a Trieste - come descrive Elvira Mujcic - ma
i loro figli, nati di là e cresciuti di qua del confine, quelli
che nel 2005 (quando si chiude il libro) avevano una ventina
d'anni e un'inquietudine senza nome.
Da un dolore bevuto fino in fondo come cicuta, possono
incredibilmente sbocciare speranze e trovare vitalità nuove
energie, foriere di una ricostruzione. Non è un confine
qualunque quello a Nord Est: vi passava la linea tra Est e Ovest
del mondo, la cortina di ferro si era abbassata qui con
centinaia di migliaia di soldati schierati, mondo comunista e
mondo a economia capitalista. Le vicende atroci che lo hanno
segnato durante e dopo la guerra - come se non fossero bastati i
massacri qui del primo conflitto mondiale - seguite dalla guerra
balcanica, ne fanno luogo di misteri e tensioni. L'esordio al
romanzo di Federica Marzi descrive bene il complesso scenario di
lingue, religioni, storie:una area di cui Trieste, collocata a
galleggiare tra passato e geografia, sembra luogo di
riferimento, capitale salvifica. (ANSA).