In questa fine d'anno, negli ultimi tempi difficili, pieni di disillusioni, di confronto con la negatività dell'uomo e del mondo, tra crisi economiche e guerre, non è strano che si sia tornati a parlare di melanconia, di quel senso di vuoto e di impotenza, di tristezza e scoraggiamento in cui ci si sente più soli, e, per guarirne, costretti a crescere, a prendere coscienza e nuovo senso di vita, magari attraverso un'azione-reazione creativa con la capacità di sentire come propria la sofferenza degli altri, partecipando ai luttuosi e tragici avvenimenti dei nostri giorni. Al museo Mart di Rovereto (Tn) si è appena aperta la mostra Mater et Melancholia dedicata a Durer, che presenta alcuni capolavori dell'artista tedesco, dalla Madonna col Bambino detta del Patrocinio a una serie di incisioni tra cui spicca Melencolia I. Solo negli ultimi mesi è uscito il bel romanzo Melancolia di Mircea Cartarescu (la Nave di Teseo, pp. 262 - 20,00 euro - Traduzione di Bruno Mazzoni), scrittore romeno dato tra i favoriti all'ultimo Nobel per la letteratura, andato invece al norvegese Jon Fosse, drammaturgo e autore di Melancholia I e II (La Nave di Teseo, pp. 446 - 22,00 euro - Traduzione di Cristina Falcinella) mentre dell'indagatrice americana di certi malesseri e atteggiamenti odierni, Susan Cain, è stato tradotto Il Dono della Malinconia (Einaudi, pp.
330 - 18,50 euro - Traduzione di Manuela Francescon). La Cain parte da Aristotele, che notava come tutti i grandi filosofi, artisti e poeti avessero inclinazione alla malinconia, e dallo stato dolceamaro di Virgilio con la sua capacità di vedere "le lacrime delle cose", entrandovi in sintonia, sentendosi empatici con le anime che conoscono il dolore, arrivando così a parlare dell'America d'oggi e a dedicare il suo libro a Leonard Cohen, ricordandone l'invito: "Se hai un dolore di cui non riesci a liberarti, fanne un'offerta creativa". Anche la Melancholia di cui parla Fosse è in fondo creativa se la indaga, insegue e scopre all'interno dei dipinti del grande pittore norvegese ottocentesco Lars Hertervig di cui percepisce una capacità "quasi spaventosa" di guardare al di là dei confini angusti della razionalità, attraverso la sua malattia, la sua solitudine. Lo scrittore, partendo dal suo quadro intitolato 'Dall'isola di Borgoya', fa nascere dall'arte la letteratura e la legittima, conducendoci all'interno della visionaria follia dell'autore e le sue ossessioni amorose. Lo fa basandosi totalmente sulla scrittura, giocando su costruzione, sintassi e ritmi, ripetizioni e variazioni, con un'abilità che accetta e riferisce i fatti biografici ma per immergersi negli stati d'animo, creando un vortice di parole che risucchia a fondo e ne riemerge, in cerca dell'assoluto. Così in una nota la traduttrice si chiede: "Come tradurre chi dice l'indicibile?" e risponde: scegliendo di "tendere l'orecchio in una audizione fina e assorbire la musica originale per restituirla con un'altra sonorità e altre regole armoniche". Diversa la lettura più esistenziale e metaforica di Cartarescu con la sua scrittura visionaria che, in tre racconti intimamente legati gioca su immagini, sensazioni e pensieri che sono come momenti di improvvisa comprensione dell'abbandono e le paure che si legano alla crescita, al prendere coscienza del mondo. Ecco il bambino che, uscita la madre, vive o immagina che questa non torni più e lui affronti le difficoltà del vivere solo, poi i due bambini che sotto le lenzuola si figurano conigli nella tana in crudele lotta con la voracità delle volpi, sino al ragazzino che scopre che per crescere bisogna periodicamente cambiare pelle. Paure infantili di solitudini, dei pericoli della vita, perché "è nell'infanzia che ha inizio la malancolia, quel sentimento che ci accompagna tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tenga più per mano", entrando soli nell'adolescenza. Sentimento difficile da descrivere per lo scrittore romeno, ma che trova verità poetica nelle sue pagine, nel suo raccontare il fantastico nel modo più realistico, amplificandone il senso intimo, la metafora. Quanto a Albrecht Durer, la sua Melencolia I datata 1514, senza dubbio la più conosciuta tra le sue incisioni, è considerata la prima rappresentazione in cui il concetto di malinconia fu trapiantato dal piano pseudo-scientifico al livello dell'arte, della creatività e della bellezza, dandole un senso che durò sino al Romanticismo. Una costruzione da sempre oggetto di interpretazioni per via dei numerosi riferimenti simbolici (la clessidra, la bilancia, il quadrato magico, il compasso e il poliedro con due punte tronche), assieme alla donna, forse una Musa in attesa dell'ispirazione, di un ritorno della vitalità. Del resto fu Baudelaire a affermare poi di non poter nemmeno immaginare bellezza che non comprendesse la malinconia.
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