Un'isola di strade silenziose e aria
meno inquinata. E' il panorama quasi bucolico della Gran
Bretagna dell'avvenire, un avvenire assai prossimo, tratteggiato
dai piani della "rivoluzione industriale verde" partoriti dal
governo Tory di Boris Johnson: certo più vicino al presidente
americano neoeletto Joe Biden sulla risposta ai cambiamenti
climatici rispetto a quanto non fosse al recalcitrante 'amico'
uscente Donald Trump.
Piani promessi da tempo da BoJo - che in famiglia ha nel
padre Stanley un pioniere riconosciuto dell'ambientalismo
conservatore made in Britain - e formalizzati ora nero su bianco
sulla carta: con tanto d'impegno ad anticipare dal 2040 al non
lontano 2030 l'obiettivo del bando contro la vendita di
qualsiasi nuova automobile diesel o a benzina nel Regno (e
proroga limitata al 2035 per i modelli ibridi di futura
generazione), in modo da rendere spedita come in nessun altro
grande Paese sviluppato la transizione verso un parco nazionale
di veicoli esclusivamente elettrici.
Deciso a riverniciare la propria leadership - appannata dagli
affanni della gestione di un'emergenza Covid che lo vede di
nuovo isolato per ragioni precauzionali, dalle incognite dei
negoziati con l'Ue sul dopo Brexit e in ultimo dalla faida
interna a Downing Street sfociata nel traumatico addio del super
consigliere Dominic Cummings - il primo ministro ha scelto con
cura la tempistica dell'annuncio.
E ha condensato la sua strategia in una cornice di 10 punti
sottoposta all'attenzione del Parlamento, del mondo economico,
della pubblica opinione. Un programma ancora scarno di dettagli,
ma suggestivo nei titoli. Sul piatto spunta la promessa di
investimenti complessivi per 12 miliardi di sterline nel corso
del decennio, con l'impegno a creare almeno 250.000 nuovi posti
di lavoro 'green'.
Oltre ad accelerare verso il ronzio della motorizzazione
elettrica di massa (uno stanziamento da 1,3 miliardi dovrà
aiutare a far disseminare il Paese di stazioni di caricamento di
batterie), il manifesto del Boris ecologista prevede di
sovvenzionare forme alternative di energia (idrogeno, eolico, ma
anche nucleare), di far piantare alberi su altri 30.000 ettari
di verde, di ripristinare siti del patrimonio naturalistico, di
moltiplicare piste ciclabili e pedonali.
Un modo per dar l'esempio e collocarsi in pole position sulla
scena internazionale, dice il premier, che conferma poi (ma per
il 2050) il traguardo 'zero emissioni' nocive nel Regno giusto
alla vigilia della conferenza Onu sul clima CoP 26 in programma
nel 2021 con epilogo a Glasgow - dopo il rinvio causato dalla
pandemia - sotto la presidenza dello stesso governo britannico e
la collaborazione di quello italiano.
Sipario e applausi? Non proprio. La rivoluzione verde targata
Tory non convince ad esempio il partito ecologista britannico
dei Verdi. A cominciare dalla sua unica deputata, la battagliera
Caroline Lucas, che riconosce "singoli aspetti positivi" nel
piano Johnson, ma nel quadro di una strategia non
sufficientemente "ambiziosa": nemmeno "lontanamente all'altezza
della gravità del momento", dell'urgenza dei pericoli che
minacciano "il clima e la natura".
Mentre di segno diverso sono le reazioni ansiose di non pochi
imprenditori: divisi fra chi apprezza - ma chiede di vederci più
chiaro e avere più certezze sui finanziamenti evocati a parole
dal governo - e chi, in primis la Society of Motor Manufacturers
and Traders (Smmt), organizzazione di categoria che rappresenta
l'intera filiera di produttori e commercianti di veicoli
isolani, pretenderebbe incentivi ben maggiori maggiori per una
riconversione epocale; o almeno tempi più lunghi sullo sfondo
dei contraccolpi paralleli incassati dallo tsunami Covid a botte
di lockdown
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