(di Stefano Secondino)
(ANSA) - ROMA, 29 OTT - Alla Cop26 di Glasgow si devono
decidere tante cose, ma quella che conta davvero è una sola:
quanto ciascun stato aumenterà il suo taglio delle emissioni di
gas serra. Se la somma dei tagli nazionali sarà consistente, si
potrà mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 2 gradi
dai livelli pre-industriali (l'obiettivo minimo dell'Accordo di
Parigi), o anche al di sotto di 1,5 gradi (l'obiettivo massimo).
Se il taglio sarà modesto, il riscaldamento supererà quel
limite, e dovremo affrontare desertificazione ed eventi meteo
estremi, col corollario di guerre, fame e migrazioni.
Quando hanno firmato l'Accordo di Parigi, nel 2015, gli
stati dell'Onu hanno preso degli impegni per ridurre le
emissioni. Si chiamano Ndc, Nationally Determined Contributions.
Ogni 5 anni questi impegni devono essere rivisti. La revisione
doveva avvenire l'anno scorso, ma la Cop26 di Glasgow è stata
rimandata di una anno per la pandemia.
Oggi siamo arrivati al dunque. Nella capitale scozzese, i
firmatari degli Accordi di Parigi dovranno dire quanto vogliono
tagliare le loro emissioni climalteranti. Il successo non è
affatto scontato. "Il vertice potrebbe andare male", ha ammesso
il padrone di casa, il premier britannico Boris Johnson.
Gli impegni presi a Parigi (generici e poco vincolanti) si
sono rivelati insufficienti per mantenere il riscaldamento
globale sotto i limiti previsti dall'Accordo. Con gli Ndc
attuali, gli scienziati prevedono che nel 2100 arriveremo da
+2,6 a +2,7 gradi. A parole, tutti gli stati del mondo sono
d'accordo che la crisi climatica sia un'emergenza, e che sia
necessario accelerare sulla decarbonizzazione. Ma quando si
tratta di passare ai fatti, i problemi saltano fuori. L'agenzia
dell'Onu per l'ambiente, l'Unep, ha denunciato che i governi del
mondo continuano a investire sui combustibili fossili, e che
molti non hanno neppure mantenuto gli impegni presi a Parigi.
Gli stati più ricchi e industralizzati (Usa, Ue, Giappone,
Gran Bretagna, Canada), quelli che possono permettersi ingenti
investimenti per la decarbonizzazione, negli ultimi tempi si
sono impegnati a tagli più consistenti delle emissioni. L'Unione
europea punta a una riduzione del 55% al 2030. Il problema è che
non è detto che ci riescano. Uscire dalle fonti fossili richiede
tempo e investimenti enormi. Le lobby del carbonio fanno
resistenza, e molti lavoratori temono di rimanere in mezzo alla
strada.
Ma il problema maggiore sono le economie emergenti. Cina e
India, pur investendo fortemente sulle rinnovabili, sono restie
ad abbandonare rapidamente le fonti fossili, per non rallentare
il loro sviluppo. La Cina, manifattura del mondo, è anche il
primo emettitore di gas serra, con oltre 10 milioni di
tonnellate all'anno. Gli Stati Uniti sono i secondi con 5.285
tonnellate, l'India terza con 2.616. Se i paesi emergenti non
tagliano drasticamente, gli sforzi dei paesi ricchi servono a
poco (la Ue produce solo l'8% dei gas serra). Pechino ha preso
un impegno generico ad arrivare a zero emissioni nel 2060, New
Delhi neppure quello.
Poi ci sono le potenze petrolifere, come Russia e Arabia
Saudita, che naturalmente fanno fatica a decarbonizzare. E
infine ci sono i paesi meno sviluppati, che non hanno proprio i
soldi per farlo, e che subiscono i danni maggiori della crisi
climatica.
Oltre all'aggiornamento degli Ndc, la Cop26 deve prendere
altre tre decisioni importanti, contenute nell'Accordo di Parigi
e mai attuate. Deve attivare il fondo da 100 miliardi di dollari
all'anno per aiutare i paesi poveri a decarbonizzare, deve
definire il mercato internazionale delle emissioni di carbonio
(come l'Ets europeo) previsto dall'articolo 6 dell'Accordo, deve
completare il "Paris Rulebook", cioè l'insieme delle regole per
attuare l'Accordo e per valutare quanto viene fatto da ciascun
paese. (ANSA).