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In evidenza
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Responsabilità editoriale di ASviS
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Ogni elemento o bene che la natura fornisce è utile per soddisfare i bisogni tanto dell’uomo quanto degli altri esseri viventi, di conseguenza la loro disponibilità è una condizione essenziale per poter vivere serenamente. L'utilizzo delle risorse naturali è aumentato dall'inizio del 1900 per la crescita imponente della popolazione e per l’enorme sviluppo industriale e tecnologico, che ha reso utili e accessibili i beni naturali con la conseguente trasformazione in merci.
Oggi dobbiamo affrontare grandi problemi ambientali che sono il risultato dell’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, soprattutto di combustibili fossili, minerali, acqua, suolo e biodiversità.
Questo comportamento è insostenibile, in quanto stiamo consumando risorse che mettono a rischio la possibilità di sopravvivenza delle generazioni future. Pertanto è importante conoscere quando nel corso dell’anno superiamo la disponibilità di risorse prodotte, ovvero il “Giorno del sovrasfruttamento della Terra” o Earth overshoot day. Dopo quel giorno dobbiamo attingere alle risorse del passato e a quelle del futuro. Quanto riusciremo ad andare avanti in questo modo?
La dinamica dell’Earth overshoot day
L’indicatore mostra il graduale peggioramento della situazione negli ultimi 50 anni: all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso risorse e consumi erano in sostanziale equilibrio, con il Giorno del sovrasfruttamento attorno a Natale. Già nel 1974 però l’Overshoot day era scivolato al 30 novembre, per poi scendere al 30 ottobre nel 1987, al 26 settembre nel 1999, al 27 agosto nel 2005, fino al 2 agosto del 2023. Nel complesso si ondeggia dal 2011 sulle date della prima decade di agosto, tranne il 2020 quando a causa degli scarsi consumi nel peggiore anno della pandemia l’Overshoot day era schizzato al 16 agosto. Ma quanto è attendibile questo indicatore, anzi questo sistema di indicatori? Per rispondere è necessario soffermarsi su qualche spiegazione tecnica.
Come si calcola
L’impronta ecologica[1] misura la domanda annuale dell’umanità di risorse naturali e può essere confrontata con la biocapacità, che misura la capacità della Terra di rigenerare tali risorse in un anno.
Dividendo la biocapacità per l’impronta ecologica si ottiene un coefficiente, che rappresenta la capacità della natura di soddisfare le richieste umane. Se, nell’arco di un anno, l’ammontare del consumo di risorse ambientali è superiore alla capacità della natura di produrle, il coefficiente è inferiore a uno. Moltiplicando questo coefficiente per 365 si ottiene il numero di giorni in cui la natura riesce a soddisfare le nostre esigenze: il giorno finale è l’Overshoot day, che si calcola nel modo seguente:
Overshoot day = (Biocapacità / Impronta ecologica) x 365
Questo indicatore consente quindi di stimare il sovraccarico globale e il deficit ecologico di qualsiasi regione o Paese.
Per riuscire a ricavare l'impronta ecologica e la biocapacità bisogna avere la possibilità di calcolare le risorse che vengono consumate e i rifiuti che vengono prodotti da una popolazione in un determinato territorio, e che questi flussi di risorse e rifiuti possano essere convertiti in un'equivalente area biologicamente produttiva, necessaria a garantire queste funzioni.
L'impronta ecologica parte dal presupposto che ogni categoria di consumo di energia e di materia e ogni emissione di scarti ha bisogno della capacità produttiva o di assorbimento di una determinata superficie di terra o acqua.
Il calcolo dell’impronta ecologica richiede innanzitutto la stima in ettari delle aree biologiche produttive del Pianeta. I territori sono divisi in categorie: terreni agricoli, pascoli, foreste, superfici edificate e acque. Poi vanno esaminate le abitudini di ciascun abitante: consumi (suddivisi in alimenti, abitazioni, trasporti, beni di consumo e servizi), rifiuti prodotti, superficie di suolo occupato, energia consumata e anidride carbonica emessa.
L'impronta ecologica e la biocapacità sono espresse in una singola unità di misura, l'ettaro globale (gha) ossia un ettaro di terreno con produttività media, per la necessità di riportare ogni prelievo di risorse alla superficie di ecosistemi che ha contribuito, direttamente o indirettamente, a generare la risorsa stessa. Un discorso parallelo vale anche per l'utilizzo di servizi ecologici di smaltimento e riassorbimento di scarti e rifiuti: anche in questo caso si stima l'estensione necessaria degli ecosistemi per smaltire e rimettere in circolo le emissioni considerate.
Per rendere comparabili tra di loro e sommabili, le diverse categorie di terreni sono pesate in base alla produttività media mondiale di quel tipo di terreno attraverso l'utilizzo di un coefficiente denominato fattore di equivalenza (Equivalence factor, Ef), che è identico per tutte le nazioni del mondo.
Per ogni tipologia di terreno, la biocapacità rappresenta l'area bioproduttiva, espressa in ettari specifici, disponibile per la produzione di ciascun prodotto primario a livello nazionale. Il calcolo è il seguente:
Biocapacità = A x YF x EQF
in cui A è l’area per ciascuna categoria di terreno, YF il fattore di rendimento, EQF è il fattore di equivalenza per ciascuna nazione e ciascuna categoria di terreno.
Misurare l’impronta ecologica è un procedimento complesso
Il calcolo dell’impronta ecologica si basa sul metodo composto e si articola in tre parti principali:
Il punto di forza di questo metodo è che si fonda su statistiche ufficiali ampie e non settoriali, con risultati molto affidabili; permette di fare un'analisi comparata accurata aggiungendo le importazioni e sottraendo le esportazioni; consente il calcolo del bilancio energetico, considerando anche i prodotti commercializzati. Per contro il metodo composto è poco dettagliato e non consente di distinguere le attività o i settori che comportano maggiori o minori consumi di risorse e produzioni di rifiuti.
Per tali motivi a livello subnazionale si utilizza principalmente il metodo per componenti, che consente di calcolare separatamente le impronte ecologiche di determinate attività (alimenti, abitazioni, trasporti, beni di consumo, servizi etc.). I valori di impronta ecologica di ogni attività vengono calcolati utilizzando dati caratteristici del territorio preso in esame. La somma dei singoli impatti fornisce l’impronta ecologica complessiva. È un metodo che ha sicuramente il vantaggio di poter essere applicato a tutti i livelli, da un’intera nazione a un singolo prodotto, ma presenta lo svantaggio di una difficile comparazione tra valori riferiti a Paesi diversi a causa dei differenti metodi di calcolo territoriali.
L'immediatezza comunicativa dell’impronta ecologica, che con un solo numero riesce a fotografare il collegamento biofisico tra uomo e ambiente, presenta un limite: nel convertire in aree equivalenti, espresse in ettari, le diverse categorie di consumo si perdono informazioni necessarie a descrivere la sostenibilità di un determinato territorio. Ad esempio, nella misurazione dei rifiuti, ridotti in termini di emissioni di CO2, non sono presi in considerazione ulteriori fattori di degrado, come l’inquinamento da rifiuti solidi o la produzione di scorie radioattive.
Infine, in un'economia globale come quella attuale, non è raro riscontrare situazioni in cui alcuni Paesi esternalizzano, per convenienza economica, la loro richiesta di biocapacità, usando quindi i terreni di altre nazioni, ma nel calcolo non si riesce a tener conto di tutte le categorie di beni importati. Altre nazioni scarsamente popolate, con abbondanza di risorse naturali, sono spinte a esportare la loro biocapacità in cambio di altri beni. L'impronta ecologica non riesce a fornire informazioni esaustive riguardo questo tipo di impatto e di scambio, che richiede l'utilizzo di altri strumenti di analisi.
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[1] Il concetto di impronta ecologica è stato introdotto nel 1996 dal canadese William E. Rees e dallo svizzero Mathis Wackernagel, che nel 2003 ha fondato il Global footprint network, una ONG che si occupa di sostenibilità ambientale.
di Giuliana Coccia
Responsabilità editoriale di ASviS
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