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In evidenza
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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Ivan Manzo
Il documento finale della Cop 28 per la prima volta associa la causa, i combustibili fossili, all’effetto, il riscaldamento globale. Può sembrare strano ma, in 30 anni di negoziati, non si era ancora riusciti a mettere nero su bianco che non solo occorre tagliare le emissioni climalteranti, ma che bisogna anche spingere forte sulla transizione da un sistema basato sulle energie fossili, che oggi soddisfano circa l’80% della domanda energetica globale, a uno pulito e rinnovabile.
Il testo definitivo del primo inventario delle azioni compiute dagli Stati, quel Global stocktake che va effettuato ogni cinque anni (il prossimo si avrà dunque nel 2028) e che ricorda che i Paesi sono ampiamente fuoristrada sull’Accordo di Parigi e devono presentare nuovi contributi determinati a livello nazionale (Ndc, impegni di riduzione delle emissioni) entro il 2025, indica che bisogna ridurre le emissioni climalteranti del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035, rispetto al 2019, per centrare l’obiettivo 1,5°C. Inoltre, la decisione Onu “richiama i Paesi” a effettuare politiche di “allontanamento dalle fonti fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questa decade - entro il 2030 -, così da raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, come indicato dalla scienza”. Sempre sotto al profilo della mitigazione, la Cop 28 suggerisce di: triplicare le fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030; accelerare la riduzione graduale del carbone non abbattuto (“unabated”); ridurre le emissioni di metano – anch’esso menzionato per la prima volta - e quelle sul trasporto su strada; eliminare gradualmente e il prima possibile i sussidi “inefficienti” ai combustibili fossili.
Si tratta di un pezzo importante dell’accordo, ma che presenta aspetti controversi. Senza dubbio è positivo il fatto che per la prima volta nel testo negoziale si associ la riduzione delle emissioni ai combustibili fossili. Soprattutto alla luce del fatto che questa decisione è stata presa in un Paese direttamente interessato, gli Emirati Arabi, e che il presidente della Cop 28, Sultan Al-Jaber, è anche l’amministrazione delegato della compagnia petrolifera di casa, l’Adnoc. Resta però l’amaro in bocca per la presenza nel testo finale di “transitioning away” (allontanarsi) piuttosto che di un “phase out” (eliminazione graduale) accanto a combustibili fossili – il phase out era la principale speranza riposta in questa Cop prima dell’inizio –, e per un semplice “phase down” (riduzione graduale) dal carbone persino “unabated”, e cioè solo quello che non si è in grado di abbattere attraverso soluzioni tecnologiche poco efficaci ed estremamente costose, come la Ccs (Carbon capture and storage), che al momento coprono solo lo 0,12% delle emissioni mondiali. Non rassicura nemmeno il termine “inefficienti” associato a sussidi ai combustibili fossili che, senza una definizione chiara significa tutto e nulla, restando così un parametro parecchio interpretabile. In sostanza, questa parte sul Gst permette ancora l’utilizzo di parecchie vie di fuga e resta lontana da quanto chiede la comunità scientifica.
Per quanto riguarda l’attività di adattamento ci sono dei miglioramenti rispetto al passato, sebbene la strada sia ancora lunga, soprattutto rispetto al tema dei finanziamenti. Viene stabilito che entro il 2030 ogni Paese dovrà completare una propria valutazione sui rischi legati al clima basata sugli impatti dei cambiamenti climatici e su quanto siamo esposti e vulnerabili. Nei prossimi dieci anni tutti dovranno mettere in piedi dei piani di adattamento chiari e trasparenti, che devono integrare ecosistemi, settori economici, persone e comunità. Un aspetto cruciale sarà appunto la questione finanziaria legata a questi obiettivi, soprattutto nell’ottica di sostenere i Paesi meno sviluppati nell’implementazione di tali strategie di adattamento.
A inizio summit ha sorpreso l’avvio fulmineo del fondo “Loss and damage”, quello destinato ai danni e alle perdite subite dai Paesi vulnerabili approvato alla scorsa Cop, a cui l’Italia ha dichiarato di voler contribuire per una somma pari a 100 milioni di euro, riconoscendo in questo modo la responsabilità storica detenuta dai Paesi industrializzati nell’aver provocato la crisi climatica. Il fondo fino a ora ha raggiunto la cifra di 655,9 milioni di dollari, “mancano però regole, obiettivi e target per passare dalla elargizione occasionale ad un finanziamento strutturale”, ha commentato Toni Federico nelle sue “cronache della Cop” pubblicate dall’ASviS. Un fondo diverso dal Green climate fund che copre le attività di mitigazione e di adattamento e che ha l’obiettivo, fino a ora mancato, di raccogliere 100 miliardi di dollari. In generale, però, ci vorrebbero molti più soldi: la Cop 28 ricorda che in termini di finanza climatica servirebbero 4mila 300 miliardi di dollari l’anno per la mitigazione e 215-387 miliardi di dollari all’anno (da qui al 2030) per l’adattamento.
Il documento punta inoltre ad arrestare la deforestazione e il degrado delle foreste entro il 2030, riconoscendo l'importanza del ruolo degli ecosistemi per il benessere umano e nello stoccaggio dei gas serra, in linea con quanto stabilito dall'accordo di Montreal della Convezione sulla diversità biologica lo scorso anno.
Male, inoltre, che dopo due settimane di discussioni non si sia trovato nessun accordo sul mercato del carbonio. La Cop 28 ha infatti rinviato tutte le decisioni alla Cop 29 di Baku, in Azerbaigian, sia per quanto riguarda la cooperazione bilaterale sui crediti di carbonio sia per quanto riguarda la costituzione di un meccanismo globale di scambio dei crediti di carbonio. Allo stato dell’arte la Cop 28 dà il via a un “offseting” (attività volta a compensare l'emissione di anidride carbonica) senza regole che potrebbe portare a una maggiore deforestazione e allo sfruttamento dei suoli nei Paesi poveri. Infine, il ricorso al gas come combustibile di transizione potrebbe essere un elemento che invece di avvicinare allontana i Paesi dall’obiettivo dell’Accordo di Parigi: per i Paesi che lo sostituiscono al carbone si tratta di una soluzione valida, per quelli come l’Italia, che dipendono già tanto dal gas, potrebbe rappresentare un ostacolo per la decarbonizzazione.
Tuttavia, per quanto imperfetto il testo negoziato a Dubai può vantare comunque un certo peso politico. Adesso organizzazioni e società civile hanno un’arma in più per obbligare i 198 Stati che hanno firmato l’accordo ad accelerare nell’immediato le politiche di transizione, ricordando che anche in sede Onu è stata finalmente riconosciuta la stretta connessione che intercorre tra riscaldamento globale, emissioni gas serra e combustibili fossili. Per centrare l’Accordo di Parigi non c’è pertanto soluzione alternativa che dismettere carbone, gas e petrolio nei prossimi anni. Come procederà dunque il nostro Paese e quali sono i prossimi passi fondamentali?
Per attuare il processo di conversione ecologica ed energetica, l’ASviS nel suo Rapporto 2023 “L’Italia e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile” sottolinea che è ancora possibile centrare gli obiettivi climatici europei al 2030 (-55% di emissioni rispetto al 1990) e al 2050 (neutralità carbonica).
Per rendere il Paese all’avanguardia nella lotta alla crisi climatica occorre però rivedere i Piani per la mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici, il Pniec e il Pnacc. L’ASviS ricorda che questi Piani necessitano di ulteriori sviluppi per orientare le politiche economiche, sociali e ambientali in direzione dello sviluppo sostenibile.
La bozza di Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima), per esempio, inviata alla Commissione europea a giugno, rivela diverse criticità che richiedono urgenti correzioni. Gli obiettivi sulle energie rinnovabili per il 2030 sono inferiori rispetto ai suggerimenti di esperti e operatori del settore e mostrano una mancanza di enfasi sul ruolo delle comunità energetiche. Mancano poi indicazioni chiare riguardo all'uso dell'elettricità rinnovabile derivante da idrogeno verde, nonché riguardo all'abbattimento delle emissioni gas serra, allo stop dei veicoli inquinanti; il tema della "giusta transizione", poi, è trattato in modo superficiale (come si intende attuarla?). Bene la chiusura confermata al 2025 delle centrali a carbone, anche se non vengono indicate alternative basate sulle fonti rinnovabili. In sostanza, il Pniec necessita di miglioramenti significativi per diventare uno strumento efficace nel guidare l'Italia verso la decarbonizzazione.
Il Pnacc (Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici), invece, va approvato il prima possibile e va soprattutto finanziato dato che, al momento, non sono previste risorse dedicate a questo importante Piano di adattamento alla crisi climatica.
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