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Responsabilità editoriale di ASviS
Responsabilità editoriale di ASviS
Le importanti riunioni internazionali che si sono svolte nei giorni scorsi e i convegni in Italia con la partecipazione dell’ASviS, nei quali queste riunioni sono state commentate, ci consentono di tracciare un bilancio di come ci collochiamo nel percorso verso uno sviluppo sostenibile.
Cominciamo dagli aspetti positivi. Come ha sottolineato Gianfranco Bologna nell’incontro di presentazione del libro della copresidente del Club di Roma Sandrine Dixon-Declève “One Earth 4 all. A survival guide for humanity” (ora disponibile anche in italiano) che si è svolto al Cnel il 28 novembre, abbiamo raggiunto un livello di conoscenza scientifica della situazione del Pianeta che consente di prevedere con grande attendibilità almeno alcune delle conseguenze dei processi in corso: per esempio, gli effetti più immediati del cambiamento climatico, in termini di fenomeni meteorologici estremi, inaridimento delle terre, innalzamento dei mari.
Questa conoscenza consente anche di individuare con maggiore precisione il modello di sviluppo che potrebbe rendere sostenibile per tutta l’umanità la vita su questo pianeta. Il libro di Sandrine Dixon-Declève enuncia con chiarezza le condizioni sulle quali si dovrebbe lavorare a livello globale.
Possiamo considerare positivo anche il fatto che, nonostante la guerra scatenata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina, la tela dei rapporti internazionali non si sia completamente strappata. I risultati della Cop 27 sul clima possono essere considerati deludenti, ma è positiva la messa a punto dell’intelaiatura di un fondo “Loss and damage” per indennizzare i Paesi più esposti al cambiamento climatico, con sovvenzioni fornite dai Paesi più ricchi che maggiormente hanno contribuito alle emissioni che causano questa crisi. Il nodo principale per avviare questo fondo riguarda il ruolo della Cina, attualmente uno dei maggiori inquinatori, ma che insiste invece per essere considerata tra i Paesi in via di sviluppo più danneggiati. Un apposito gruppo di lavoro dovrebbe definire questi aspetti prima della prossima conferenza Cop 28 che si terrà a Dubai e anche l’incontro tra il presidente americano Joe Biden e il cinese Xi Jinping in occasione del G20 di Bali indica una volontà costruttiva, nonostante i tanti punti di frizione.
Tra gli elementi positivi, possiamo poi registrare i progressi della green economy e della finanza verde: gli incontri in occasione del Festival del futuro di Verona mostrano che sono sempre più numerose le imprese che hanno incorporato i criteri Esg e soprattutto le considerazioni ambientali nelle loro strategie, non per esigenze di pubbliche relazioni, ma per garantire meglio la propria sopravvivenza.
Inoltre, cresce in tutto il mondo la percezione della urgenza di politiche che affrontino lo sviluppo sostenibile e in particolare il cambiamento climatico, considerato problema prioritario, più della pandemia, dal 37% dei 20mila intervistati dall’Ipsos in 29 Paesi. Anche se a questa percezione del problema non corrisponde chiarezza di idee sulle soluzioni.
Infine, possiamo segnare sulla lavagna, tra gli aspetti positivi, l’accelerazione tecnologica. Problemi che oggi ci paiono insolubili potrebbero risolversi grazie a nuove scoperte. Già l’ipotesi che i primi prototipi di reattori a fusione nucleare possano essere disponibili nel prossimo decennio cambierebbe sostanzialmente il quadro energetico a metà secolo. Ma sarebbe sbagliato pensare che l’innovazione risolva tutti i nostri problemi: nell’impiego di tecnologie già disponibili vediamo che ci sono ostacoli di carattere finanziario (i capitali necessari per i nuovi investimenti), economico (la necessità di ammortizzare i vecchi impianti) o anche politico (la resistenza di categorie che verrebbero danneggiate) che fanno sì che la transizione anche quando è possibile non sia affatto scontata.
Molto dunque si sta muovendo, ma non possiamo dire che tutto va bene. Se i progressi verso uno sviluppo sostenibile continueranno ai ritmi attuali, non potremo evitare le conseguenze più gravi del cambiamento climatico nei prossimi decenni: Grammenos Mastrojeni, nell’intervista pubblicata da FUTURAnetwork, ci dice che un miliardo e mezzo di persone potrebbero essere indotte a lasciare la loro zona d’origine a causa dell’inaridimento delle terre e delle carenze idriche entro il 2050. Non tutta questa grande massa di migranti si riverserà sui Paesi ricchi, molti si limitano a cambiare zona di insediamento nello stesso Paese, prevalentemente dalla campagna alla città, ma è chiaro che questa situazione crea una bomba sociale foriera di violenze inimmaginabili. Non dimentichiamo che il successo degli estremisti in Africa non si basa solo sul terrore, ma anche sulla capacità di gestire una rete di solidarietà a favore dei più poveri.
Se anche limitiamo lo sguardo all’area del Mediterraneo, che sarà tra le più colpite nei prossimi dieci anni dalla crisi climatica, già abbiamo visto l’effetto della siccità nel delta del Po, che ha reso incoltivabili migliaia di ettari; l’aumento di venti centimetri del livello del mare, previsto nel decennio, inaridirebbe il delta del Nilo, con conseguenze catastrofiche per decine di milioni di persone.
Dunque si deve fare di più a livello politico nazionale, europeo e globale per quel cambio di modello indicato nel libro di Dixon. Chi è più vicino a noi ne è convinto, ma molti, anche tra i più autorevoli leader d’opinione, esprimono tutto il loro scetticismo. Magari non lo dicono troppo apertamente, perché non mostrarsi “verdi” almeno a parole non è politically correct, ma in sostanza fanno parte di quelli che Mastrojeni definisce “transizionisti”. Per loro, i danni di un passaggio accelerato a una economia a zero emissioni sarebbero gravissimi, sia per la riconversione forzata di interi settori industriali (si pensi a tutte le produzioni legate ai motori a combustione interna, che nelle automobili in Europa dopo il 2035 non si dovrebbero più produrre), sia nei Paesi che derivano dalla economia dei fossili una parte importante del loro prodotto interno lordo.
La crisi economica originata dalla guerra, la ripresa dell’inflazione e la carenza di materiali essenziali aggravano questa percezione. Insomma, c’è una parte rilevante del “mondo che conta”, fatto di politici, imprenditori e altri esponenti autorevoli che dice più o meno apertamente che ci siamo fatti incantare dai discorsi “alla Greta Thunberg” e abbiamo perso di vista la realtà delle cose.
Eppure siamo convinti di essere dalla parte della ragione, semplicemente perché i tempi delle sfide non possono essere dilazionati. Anche gli scettici, che vorrebbero rinviare i processi di transizione, non ci dicono come intendono affrontare le conseguenze di questi ritardi: si limitano a scaricarne l’onere sulle future generazioni.
Si rischia così di avere una situazione polarizzata. Da una parte ci siamo noi, che insistiamo per fare tutte le scelte necessarie verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile, dall’altra ci sono “gli altri” che di fatto frenano questa transizione. E non ci parliamo. È ovvio che in una situazione di questo genere i politici, non dico i pochi statisti che hanno il coraggio di guardare davvero avanti anche a rischio di impopolarità, ma la grande massa dei politici, si barcamena, rende omaggio alla sostenibilità e al futuro, ma sempre con poca sostanza.
Come si superano questi ostacoli? La risposta ovvia è che dobbiamo puntare sulla società civile, sulla formazione e sull’informazione, su una grande azione dal basso: quello che l’ASviS e le associazioni aderenti all’Alleanza fanno da più di sei anni. Ma evidentemente bisogna fare un passo in più. A mio avviso si pongono almeno due questioni. Innanzitutto, un problema di comunicazione. Riprendo una frase di Enrico Giovannini nel suo keynote speech al Festival del futuro:
"Talvolta, di fronte a fragilità a noi ben note, ci è stato detto di non insistere per non spaventare i cittadini".
Questo è un nodo che ho già affrontato in precedenti editoriali. Come mantenere viva, come stimolare la fiducia (e l’impegno) verso una “utopia sostenibile”? La rappresentazione di futuri troppo minacciosi induce invece alla distopia (scenario catastrofico) o alla retrotopia (desiderio di un impossibile ritorno a un passato più semplice)? La risposta non è facile ma, soprattutto parlando ai giovani, è necessario sempre comunicare che le scelte per la sostenibilità sono valoriali e quindi utopistiche, ma sono anche realistiche, possibili, che dipendono da noi e dai nostri comportamenti individuali e collettivi.
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Di Donato Speroni
Responsabilità editoriale di ASviS
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