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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Ivan Manzo
È andata bene. Anzi, è andata male. Il bisogno impellente di buona parte del mondo dell’informazione di etichettare un processo negoziale così complesso, come lo sono le Conferenze dell’Onu, rischia di farci perdere pezzi importanti di una narrazione che deve accompagnare e indirizzare ogni attività umana – o meglio, antropica - verso la neutralità climatica.
Questa di Sharm el-Sheikh, luogo in cui si è tenuta la 27esima Conferenza delle parti (Cop 27) sul cambiamento climatico, doveva essere la “Cop dell’implementazione” - non a caso il documento finale si chiama “Sharm el-Sheikh Implementation Plan” -, partiamo col dire che purtroppo non lo è stata. Si registra infatti un sostanziale fallimento sul taglio delle emissioni climalteranti e sui piani di adattamento. La presidenza egiziana (in una Cop, in genere, luogo dell’avvenimento e presidenza coincidono) è stata brava a tenere alta l'attenzione sul “loss and damage” portando a casa un risultato storico e positivo. Allo stesso tempo, però, ha volutamente trascurato l’argomento mitigazione, strizzando così l’occhio ai propri interessi di profitto a breve termine - esportazioni di gas - e a quello, in generale, dei combustibili fossili.
Dalla decisione finale, slittata di circa 30 ore rispetto i tempi previsti per via di un accordo che nonostante le nottate fatte dai negoziatori non voleva arrivare, emerge qualche buona notizia e pesa enormemente la mancanza di ambizione.
Il maggior successo è senza dubbio l’istituzione di un fondo “loss and damage”. Se ne discute da tempo - addirittura dal summit di Rio 1992 -, ci pone di fronte alla questione del finanziamento delle perdite e dei danni subiti dai Paesi vulnerabili a causa della crisi climatica. Ricordiamo che questi Paesi sono quelli che hanno contribuito meno all’aumento della temperatura ma sono gli stessi che attualmente devono sopportare i maggiori disastri imposti dalla crisi climatica (si pensi alle isole del Pacifico che rischiano di scomparire, alle enormi inondazioni nel Pakistan, ai periodi di siccità che vivono le nazioni africane). A Cop 27 si è finalmente fatto un passo avanti sul fondo che opererà all’interno dell’Accordo di Parigi e dovrà essere avviato entro la prossima Cop 28 (Dubai). Un primo successo per i Paesi vulnerabili, resta ora da capire come sarà sviluppato e chi effettivamente si renderà disponibile a contribuire, insomma quali Paesi ci metteranno i soldi.
È opportuno fare qualche altra considerazione sull’argomento. L’istituzione del loss and damage rappresenta una prima vera ammissione di colpa da parte dei Paesi industrializzati in sede di negoziato. Non è poco. Motivo per cui, per decenni e fino alle ultime ore di questa Cop, Stati Uniti ed Europa, ma anche Paesi come Australia e Giappone, erano contrari a una richiesta che arrivava soprattutto dal gruppo negoziale “G77 + Cina”, che può contare su 134 Paesi tra cui parecchi, appunto, vulnerabili. A sbloccare il negoziato è stata la mossa dell’Europa e del suo inviato per il clima, il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, che aprendo a questa possibilità ha fatto intendere che anche la Cina, vista ancora come Paese in via di sviluppo all’interno dell’Unfccc (Convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici), deve iniziare a finanziare questo genere di attività dato che si appresta a essere il secondo emettitore storico per gas serra in atmosfera (al momento è dietro Stati Uniti ed Europa). Insomma, l’ambiguità di una Cina potenza economica ma Paese in via di sviluppo in sede negoziale deve essere risolta.
Nessuno si deve però sentire al riparo dal cambiamento climatico, soprattutto chi vive nell’area mediterranea, come ha ricordato Grammenos Mastrojeni, Segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo (Upm), durante un suo intervento nell’ultima puntata di Alta sostenibilità su Radio radicale.
“Il Mediterraneo ha una storia particolare nella crisi climatica – ha dichiarato Mastrojeni -, eppure non esiste nei negoziati per una ragione strutturale, visto che l’area mediterranea è suddivisa in tre gruppi negoziali. Abbiamo voluto portare la nostra voce (durante gli eventi a margine della Cop 27) per far valere i nostri interessi. Parliamo di una zona che rappresenta un ‘hot spot’ del cambiamento climatico: siamo la seconda regione al mondo per riscaldamento e le acque del Mediterraneo sono quelle che si scaldano più velocemente di tutte. Due fattori che si associano a previsioni a corto termine piuttosto drammatiche. Per esempio, si corre il rischio di avere 250 milioni di persone in scarsità idrica entro una quindicina d’anni. Le acque del Mediterraneo sono poi anche quelle che si innalzano più velocemente di tutte, e questo è un problema. 20 centimetri in più entro quindici anni, che sembrano pochi, fanno invece paura. Il problema è che non si tratta solo di acqua del mare che copre le coste, ma si tratta di acqua salata che si insinua nelle terre costiere. Il 40% della produzione agricola si fa sulle coste. Abbiamo il delta del Po che già sta soffrendo, immaginiamo cosa significhi salinizzare il delta del Nilo: vuol dire andare a minare la sicurezza alimentare di un regione che ha 120 milioni di abitanti. Crediamo però di aver trovato anche il paradigma di soluzione.
La scienza ci dice che nessuno, neanche gli Stati più ricchi, ha da solo i mezzi per fronteggiare una crisi così vasta e rapida. Ce la facciamo solo se ci mettiamo assieme, e questo ha alcune implicazioni politiche. Bisogna partire dalla considerazione che il mare Mediterraneo è di ricchi e poveri, di chi può e chi non può. Questa non omogeneità crea destabilizzazione, e nella peggiore delle ipotesi conflitti. Abbiamo tante differenze, ma se iniziamo a vederle come risorse ce la possiamo fare. L’Unione europea dice di voler decarbonizzare entro il 2050, ma dove lo facciamo l’idrogeno verde se non nei deserti dove si riesce a catturare l’energia necessaria? D’altro canto, il settore solare del Sud non può solo contare sui mercati interni, non ci sarebbero sufficienti capitali. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro”.
Tocca ora vedere come proseguiranno i lavori dai risvolti anche tecnici: cosa si intende per perdite e danni? Siamo sicuri che quell’evento estremo è stato causato o potenziato dalla crisi climatica? Il dibattito sulla definizione resta aperto, ma avendo sforato le 415 parti per milione (ppm) di CO2 in atmosfera, superando così la soglia di sicurezza posta a 350 ppm dalla comunità scientifica, tutto è loss and damage. Ma questo è solo il parere di chi scrive. La speranza, invece, è che i Paesi ricchi vedendosi costretti a pagare i danni accelerino la riduzione delle emissioni. Anche perché già hanno enormi difficoltà nel trovare risorse per il Green climate fund da destinare alle attività di mitigazione e adattamento.
Neanche quest’anno, infatti, il mondo ricco riuscirà a mobilitare i 100 miliardi di dollari all’anno in finanza per il clima, promessi ormai dalla Cop del 2009 di Copenaghen. Non lo ha fatto durante la Cop 27 e non lo ha mai fatto: si è arrivati al massimo ai circa 83 miliardi di dollari di due anni fa. Un grosso ritardo, basti pensare che l’obiettivo dei 100 miliardi all’anno era posto entro il 2020. Una cifra, tra l’altro, lontana da quella necessaria: secondo i migliori studi scientifici e anche quelli delle istituzioni finanziarie servirebbe almeno dieci volte tanto, 1000 miliardi di dollari l’anno.
In generale, se non contiamo solo i finanziamenti che necessitano i Paesi in via di sviluppo, la decisione finale della Cop 27 ricorda che bisogna mobilitare una cifra di almeno 4mila miliardi di dollari l’anno in energie rinnovabili entro il 2030 per avere buone probabilità di centrare la neutralità climatica – si intende che le emissioni antropiche di gas serra dovranno essere totalmente assorbite dai nostri ecosistemi - posta al 2050.
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