Se hai scelto di non accettare i cookie di profilazione e tracciamento, puoi aderire all’abbonamento "Consentless" a un costo molto accessibile, oppure scegliere un altro abbonamento per accedere ad ANSA.it.
Ti invitiamo a leggere le Condizioni Generali di Servizio, la Cookie Policy e l'Informativa Privacy.
In evidenza
Extra
Responsabilità editoriale di ASviS
Responsabilità editoriale di ASviS
Mentre tra le stanze di Sharm El Sheik si continua a negoziare su temi come la finanza climatica, il loss and damage (perdite e danni) e i diritti umani, a margine della Cop 27 d’Egitto, prima dell’inizio della Conferenza e durante questa prima parte di summit (la Conferenza sul clima numero 27 si tiene dal 6 al 18 novembre), sono stati pubblicati diversi studi sulla crisi climatica. L’intento delle organizzazioni è trasmettere alla classe politica l’urgenza di agire, imprimendo così un’accelerazione al dibattito guidato dai tanti delegati - compresi quelli di Cina e India, che buona parte del mondo dei media italiani ha dato inspiegabilmente per assenti - che si trovano nel Paese africano. O, almeno, questa è la speranza. Di seguito, ciò che emerge da questi importanti lavori di ricerca.
Impegni dei Paesi “terribilmente inadeguati”. Il Programma della Nazioni unite per l’ambiente (Unep) il 27 ottobre ha pubblicato il suo tradizionale “Emission gap report” che segnala la distanza tra le dichiarazioni dei Paesi sul taglio delle emissioni climalteranti e gli sforzi che, invece, dovrebbero mettere in campo per centrare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi (mantenere l’aumento medio della temperatura terrestre al di sotto di 2°C, facendo il possibile per limitare tale incremento a 1.5°C). Per “The closing window - Climate crisis calls for rapid transformation of societies”, questo il titolo dell’ultima edizione, gli NDCs (Contributi determinati a livello nazionale) dei Paesi, in pratica gli impegni da loro presentati in sede Onu, sono “terribilmente inadeguati”. Nello studio, che analizza gli NDCs presentati durante la scorsa Cop di Glasgow, si evidenzia infatti una mancanza di ambizione: le politiche in vigore ci porterebbero a un aumento di 2.8°C entro la fine del secolo, mentre gli impegni attuali consentirebbero di stare tra 2.4°C e 2.5°C. Un cambiamento esiguo rispetto al passato, se pensiamo che questi ultimi, rispetto ai precedenti, sarebbero in grado di tagliare solo l’1% dei gas serra entro il 2030.
Lo studio, inoltre, rileva che servono azioni senza precedenti per consentire al mondo, nei prossimi otto anni, di centrare l’Accordo di Parigi. Azioni che passano, necessariamente, dall’azzeramento delle emissioni nel sistema elettrico, nell'industria, nei trasporti e negli edifici; da un nuovo comparto alimentare; da un mercato finanziario maggiormente orientato alla lotta alla crisi climatica; dall’uso di tecnologie “low carbon”; dalla creazione di un mercato mondiale efficiente del carbonio; da un sistema bancario che promuova investimenti in energia a basse emissioni di carbonio e nuove tecnologie; dalla cooperazione tra Paesi.
Adattamento: troppo poco, troppo lentamente. Il primo novembre l’Unep ha pubblicato poi l’“Adaptation gap report” che, questa volta, segnala la distanza tra fatti e parole in materia di pianificazione, finanziamento e attuazione dell'attività di adattamento a livello globale. Intitolato “Too little, too slow”, lo studio descrive gli impatti crescenti che si verificano con l’attuale aumento di 1,1°C: ne sono un chiaro esempio la siccità pluriennale che attraversa il Corno d'Africa, le inondazioni in Asia meridionale e le ondate di calore dell'emisfero settentrionale.
Il Rapporto rivela che fino a ora un terzo dei Paesi che ha firmato l’Accordo di Parigi ha predisposto un piano di adattamento, o si prepara a farlo. Piani che devono attrarre sempre più finanziamenti che, però, necessitano di una significativa accelerazione per riuscire a raddoppiare i flussi finanziari del 2019 entro il 2025, in conformità con quanto stabilito nel Patto per il clima di Glasgow (Cop 26). Nel 2020, i finanziamenti internazionali per l'adattamento ai Paesi in via di sviluppo hanno raggiunto i 28,6 miliardi di dollari, con un aumento del 4% rispetto al 2019. Troppo poco, dato che l'adattamento ogni anno dovrà attrarre risorse tra 160 e 340 miliardi di dollari entro il 2030, e tra 315 e 565 miliardi di dollari entro il 2050.
Piani di assorbimento “irrealistici”. Chiudiamo la serie dei “gap” con il rapporto dedicato a quantificare l'area di terra necessaria ai Paesi nel caso mantenessero gli impegni presi. Il “The land gap report”, pubblicato il primo novembre dall’omonimo gruppo di ricerca, denuncia che servirebbero circa 1,2 miliardi di ettari di terreno (parliamo di quattro volte la superficie dell'India) per soddisfare gli impegni di rimozione del carbonio dall’atmosfera inclusi nelle attività dichiarate dai Paesi, che vanno dalle piantagioni forestali su larga scala al rimboschimento e al ripristino di foreste degradate, zone umide e pascoli. Risultati che indicano “un'aspettativa irrealistica che la terra soddisfi gli obiettivi di mitigazione del clima. L'entità delle rimozioni terrestri negli impegni climatici nazionali mette in discussione la validità degli obiettivi net zero come contributi alla soglia di 1.5 °C”.
Questa iniziativa di ricerca dell'Università di Melbourne determina che i Paesi intendono utilizzare 633 milioni di ettari della superficie totale per la cattura del carbonio dalla piantumazione di nuovi alberi, elemento che “inghiottirebbe terra disperatamente necessaria per la produzione alimentare e la protezione della natura”. Solo 551 milioni di ettari contabilizzati negli impegni ripristinerebbero, invece, terre degradate e foreste primarie.
"La terra ha un ruolo fondamentale da svolgere negli sforzi globali per mantenere il pianeta fresco, ma non è una soluzione miracolosa”, ha affermato Kate Dooley, autrice principale di The land gap report e ricercatrice presso l'Università di Melbourne. “Questo studio rivela che gli impegni dei Paesi per il clima dipendono pericolosamente da misure terrestri inique e insostenibili per catturare e immagazzinare il carbonio. Chiaramente, i Paesi stanno facendo il pieno di impegni sulla terra per evitare il duro lavoro di ridurre drasticamente le emissioni da combustibili fossili, decarbonizzare i sistemi alimentari e fermare la distruzione delle foreste e di altri ecosistemi”.
Il riscaldamento globale non aspetta. Gli ultimi otto anni rischiano di essere i più caldi mai registrati. La temperatura media globale nel 2022 si aggira intorno 1,15°C in più rispetto al periodo preindustriale (1850-1900). In media continua ad aumentare la temperatura del globo, nonostante quest’anno sia stato caratterizzato dal fenomeno “freddo” rappresentato da La Niña. È l’allarme lanciato il 6 novembre dall’Organizzazione metereologica mondiale (Omm) attraverso il suo “Provisional state of the global climate in 2022”. Ondate di calore, siccità, inondazioni devastanti, il 2022 ha impattato duramente anche sulla catena alpina che sta attraverso un periodo record per la fusione dei suoi ghiacciai. La calotta glaciale della Groenlandia, invece, ha perso massa per il 26esimo anno consecutivo e nel mese di settembre per la prima volta ha piovuto, anziché nevicato.
Continua a leggere su asvis.it
Di Ivan Manzo
Immagine di: Foto di Dean Moriarty da Pixabay
Responsabilità editoriale di ASviS
Ultima ora