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Moti Aquilani,50 anni dalla rivolta per il capoluogo

Tre giorni di scontri e devastazioni per compromesso Dc-Pci

   Nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 1971, al termine di una giornata piena di tensione, scandita nelle ore da uno sciopero generale della città in attesa della votazione del neo costituito Consiglio regionale, scoppiò, incontrollata, la rivolta degli aquilani a difesa delle prerogative del capoluogo di regione.
    Oggetto del contendere fu l'articolo 2 dello Statuto della Regione Abruzzo che doveva essere approvato in quella sede dopo mesi di trattative segrete tra i partiti - con divisioni anche all'interno della Dc, compagine di maggioranza - per non scontentare nessuno e per sanare le rivendicazioni del giugno 1970, quando Pescara, città nata nel 1927 divenuta in pochi decenni il traino dell'economia regionale, protestò con disordini per la decisione di fissare il capoluogo di regione all'Aquila, città storica (come non ricordare il Papa del Gran Rifiuto Celestino V) e culla della cultura abruzzese.
    Alla fine il compromesso tra Dc e Pci, rappresentati da 20 e 10 consiglieri sui 40 eletti, produsse una violenta reazione tra gli aquilani che si sentirono traditi da un machiavellico disegno di svuotamento dei privilegi di città capoluogo: fu annunciata la possibilità di tenere le riunioni di Giunta e Consiglio regionale anche a Pescara, e ci fu la spartizione degli assessorati, con il centro adriatico che ne ebbe sette, importanti a livello economico e amministrativo, mentre all'Aquila ne vennero affidati tre di minore importanza.
    Quella del 26 febbraio fu la serata degli equivoci e degli inganni: il presidente del Consiglio regionale, Emilio Mattucci, atriano, nel dare lettura dell'articolo 2 davanti a stampa e pubblico, fu vittima di un refuso leggendo una congiunzione ('e') al posto di una disgiunzione ('o') - il testo corretto era "il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L'Aquila o a Pescara" - scatenando le proteste e un lancio di monetine da parte dei presenti. I consiglieri e i giornalisti furono costretti a rifugiarsi in una stanza attigua e a restarci per ore in attesa che gli animi si calmassero e che arrivassero i carabinieri a sgomberare il palazzo.
    Per poter votare l'articolo in discussione e poi uscire in sicurezza dalla Prefettura - dove si teneva l'assemblea - fu comunicato che la votazione era stata rinviata, quando in realtà ottenne una maggioranza di 38 voti su 40, con un voto contrario del Msi, e un consigliere del Psi assente. Al termine della seduta, mentre i consiglieri uscivano da una porta secondaria scortati dalla polizia, all'Aquila si diffuse la notizia che il testo contestato era stato approvato. I cittadini diedero l'allarme, anche attraverso le campane delle chiese e i clacson delle auto che giravano per le strade principali, chiamando a raccolta una protesta che travalicò anche il Comitato d'azione locale.
    Fu il caos: barricate costruite con auto rovesciate agli ingressi della città, assalto alle sedi dei partiti, con distruzione e incendi, danneggiamenti alle abitazioni di esponenti politici, sciopero generale, scuole chiuse, richiesta di dimissioni del Consiglio Comunale e Provinciale. Le forze dell'ordine, sorprese da tanta violenza, in numero nettamente inferiore e impreparate all'evento, attesero l'arrivo dei celerini da Roma, che portarono lacrimogeni, repressione, arresti e feriti. La città venne messa a ferro e fuoco per tre giorni: ci furono scontri e devastazioni; serpeggiava la paura e la delusione anche per migliaia di posti di lavoro persi.
    I moti aquilani finirono anche sul New York Times, con la lettura sbagliata che l'allora Governo Colombo decise di dare alla rivolta, una connotazione estremista di destra: a ribellarsi in realtà era stato il popolo aquilano, non c'erano elementi venuti da fuori a fomentare la protesta. Era il risultato della frustrazione di una città delusa da un accordo politico che significava una mezza sconfitta per L'Aquila e una mezza vittoria per Pescara. (ANSA).
   

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