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Concordia, la Corte d'Appello: Schettino lasciò la nave con gente a bordo

La motivazione della sentenza della condanna a 16 anni

Saltò dalla Concordia su una lancia in mare, mentre sapeva che c'erano ancora passeggeri a bordo. Poi, ormai in salvo su uno scoglio, continuò a mentire alle autorità, come nella telefonata con De Falco, sulla reale situazione in corso del naufragio che sarebbe costato 32 vittime e numerosi traumatizzati. All'ex comandante Francesco Schettino i giudici di appello di Firenze non hanno fatto sconti, tantomeno sull'accusa più infamante, cioè l'abbandono della nave. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza del 31 maggio che confermò la condanna a 16 anni di reclusione e 1 mese di arresto già inflitta a Schettino dal tribunale di Grosseto.
"Non è attendibile - scrivono i giudici - quanto riferito dall'imputato durante l'esame dibattimentale in merito al fatto che, nel momento in cui saltava sul tetto di una lancia, non si era reso conto che vi erano persone ancora a bordo"; al contrario in quel "preciso momento, Schettino era consapevole che diverse persone si trovavano ancora sul lato sinistro della nave o che, comunque, quantomeno aveva seri dubbi in tal senso e decideva in ogni caso di allontanarsi in modo definitivo dalla Concordia". Schettino, dicono i giudici, "dopo aver mentito al sottocapo Tosi (un soccorritore, ndr) continuava a raccontare il falso anche a De Falco" mentre "era già in salvo". Nessuno sconto neanche sugli altri delitti: omicidio e lesioni plurimi colposi, naufragio colposo, abbandono, mancate comunicazioni alle autorità. Il collegio - presidente Grazia D'Onofrio, consigliere Linda Vannucci, relatore Angelo Grieco - stila un testo di quasi 700 pagine che cementa tutti i 'fondamentali' dell'accusa, così come già li ha recepiti il tribunale di Grosseto. E offre alcune rifiniture, inedite, su comportamenti e psicologia di Schettino azzerando ogni ipotesi di scaricare responsabilità su ufficiali di plancia e altri della nave, suggerite - senza successo - dalla difesa.
"Non si comprende - osservano i giudici di Firenze - come Schettino, al vertice della catena di comando, possa pretendere di andare esente da responsabilità per le sue numerose condotte colpose, commissive e omissive, che hanno portato la nave al naufragio solo perché profili di colpa concorrente (di gravità molto minore) sono stati ravvisati anche nelle condotte dei suoi sottoposti". Perciò "nessuna pentola bollente" gli fu passata da Ciro Ambrosio, anzi i giudici scrivono di "ingerenza di Schettino" in plancia. Né era "intenzione" di Schettino seguire la rotta del cartografo Canessa, ma "navigare secondo il suo istinto marinaresco, più a ridosso dell'isola, confidando nella sua abilità": "Non intendeva attenersi alla rotta per l'inchino ma passare più vicino all'isola seguendo una sua rotta che non era stata comunicata ad alcuno". Annotano i giudici: "E' eloquente la telefonata con Mario Palombo dove Schettino s'informava se c'era acqua alta sufficiente in un punto a distanza inferiore a quella dove sarebbe dovuta passare la nave". Che invece urtò le rocce.
Bocciata la difesa anche sui presunti errori del timoniere: la lingua doveva essere l'italiano ma la raffica di ordini in inglese, e in rapida sequenza, confuse Jacob Rusli Bin.
La corte d'appello però non calca la mano sull'imputato e resta distante da una pur possibile lievitazione della condanna (il pg voleva 27 anni di carcere). Anche in questo senso i giudici respingono l'attribuzione della 'colpa cosciente', come chiedeva invece il pm nel suo ricorso. Qualificazione che avrebbe alzato il conteggio.(ANSA).

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