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Quirinale: 1948, Einaudi e il battesimo dei franchi tiratori

Scelto dopo flop Sforza

di Marco Dell'Omo

"Che cosa? Io presidente della Repubblica? Ma non dite sciocchezze, parliamo d'altro!". Luigi Einaudi, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, quelle stravinte dalla Dc e perse dal Fronte Popolare socialcomunista, sa bene che il suo nome circola come possibile candidato alla presidenza della Repubblica. Ma se qualcuno prova domandargli qualcosa diventa sgarbato e lo liquida in poche battute. La scelta del nuovo capo dello Stato è il primo atto che deve compiere il nuovo Parlamento, dove la Dc e i suoi alleati hanno una maggioranza a prova di bomba. Al vertice dello Stato c'è ancora Enrico De Nicola, ma è tempo di eleggere il primo vero presidente della Repubblica secondo le regole fissate dalla Costituzione.

Se Einaudi si irrita e perde il suo aplomb quando gli parlano della presidenza della Repubblica è perché, lavorando a stretto contatto di gomito con Alcide De Gasperi, sa che i piani del presidente del consiglio sono altri: lasciarlo alla vicepresidenza del consiglio e alla guida della Banca d'Italia, dove la sua competenza e il suo prestigio internazionale avrebbero giovato allo sforzo della ricostruzione post bellica, e mandare al Quirinale il ministro degli Esteri Carlo Sforza, un conte di idee repubblicane inviso alle sinistre per la sua granitica fedeltà agli Stati Uniti (Togliatti, che pure lo stimava quando i comunisti erano ancora al governo ora lo bastona quasi quotidianamente dicendegliene di tutti i colori).

Democristiani e comunisti ormai sono ai ferri corti: inimmaginabile pensare a un accordo tra schieramenti contrapposti sul Quirinale dopo che per tutta la campagna elettorale la Dc ha spiegato agli italiani che se avessero vinto i comunisti sarebbero arrivati i cosacchi a piazza San Pietro e i comunisti dicevano che avrebbero cacciato De Gasperi a calci nel sedere. De Gasperi dà quindi ordine di votare Sforza sin dal primo scrutinio. Pensa di poterlo eleggere se non subito almeno alla quarta votazione, quando il quorum si abbasserà e serviranno non più 600 voti ma 451. 

Le cose però si mettono subito male. La mattina del 10 maggio, quando termina la prima votazione, De Gasperi capisce che le elezioni del 18 aprile hanno sì sconfitto il Pci, ma hanno anche sancito la divisione della Dc in gruppi contrapposti che in un futuro non troppo lontano diventeranno correnti organizzate: Sforza riceve solo 353 voti, mentre De Nicola, che pure ha rinunciato a candidarsi per la riconferma, lo supera con 396 voti. Chi ha tradito? Tutti i sospetti vanno in direzione dei parlamentari della sinistra democristiana di Dossetti e La Pira, che non amano Sforza soprattutto per la sua fama di anticlericale e libertino: al ministro i seguaci di Dossetti avevano persino rimproverato di avere l'abitudine di girare nudo per casa turbando le monache che abitavano di fronte. 

Quel 10 maggio del 1948 segna la data di nascita dei franchi tiratori, che influenzeranno negli anni a venire quasi tutte le elezioni presidenziali. De Gasperi ha un diavolo per capello. Riunisce di corsa i gruppi parlamentari in via degli uffici del Vicario e sbotta: "Quello che è successo è molto grave, perché significa che in avvenire, e magari per questioni molto più importanti che non l'elezione del presidente della Repbblica, non potremo più fidarci nemmeno di noi".

Il segretario Dc, però, non molla. Al secondo scrutinio Sforza avanza fino a 405 voti. De Nicola arretra a 336. Ma la fronda non è debellata. Tanto vale lasciar perdere.

De Gasperi invia Giulio Andreotti, Attilio Piccioni e Guido Gonella a dare a Sforza la ferale notizia. Il ministro accoglie la delegazione in vestaglia e monocolo mentre prepara il suo discorso di insediamento: sulla scrivania c'è un foglio sul quale c'è scritto "Signori senatori, signori deputati...". "Eccellenza, non so come dirlo, ma la dc non può più sostenere la sua candidatura", balbetta Andreotti . Sforza corruga la fronte, ma dissimula la delusione con grande eleganza: "Per carità, capisco benissimo, meglio così..". E congeda la delegazione democristiana.

"Come l'ha presa?" si informa De Gasperi quando Andreotti va a riferirgli l'incontro. "Benissimo, un vero gentiluomo", risponde il suo giovane sottosegretario. Ma il tempo stringe e bisogna trovare rapidamente un'alternativa. All'una di notte si riunisce la direzione dc. Molti discorsi, ma poca sostanza: la riunione si scioglie senza che si sia arrivati a decidere niente. Restato da solo con Andreotti, De Gasperi decide di rompere gli indugi: "A questo punto non ci resta che Einaudi". La candidatura del vecchio e autorevole senatore liberale (ma cattolico praticante) sembra a De Gasperi l'unica in grado di ricompattare la dc e la maggioranza. Sono le quattro di notte: nonostante l'ora il presidente del consiglio spedisce Andreotti a comunicare a Einaudi che sarà il nuovo candidato alla presidenza della Repubblica. Andreotti aspetta le sei di mattina e, dopo averlo svegliato con una telefonata, lo raggiunge nella villetta in via Tuscolana 349, residenza dei governatori della Banca d'Italia. Nell'abitazione di Einaudi ci sono già i suoi collaboratori. L'atmosfera è eccitata. "Per me va bene. Però c'è un grave inconveniente. Sono zoppo: come farò a passare in rassegna le truppe durante le parate?" chiede il senatore. "Non si preoccupi , potrà farlo in automobile", è la risposta del giovane politico romano.

E così l'11 maggio, dopo un terzo scrutinio andato a vuoto, con 518 voti su 883, lo stimatissimo economista piemontese, antifascista storico ma monarchico convinto (almeno fino al referendum costituzionale), diventa il primo presidente eletto della neonata Repubblica Italiana , con tutti i poteri che gli assegna la Costituzione entrata in vigore all'inizio dell'anno. I comunisti e i socialisti hanno votato per un altro vecchio liberale dell'epoca prefascista, Vittorio Emanuele Orlando, che ha avuto 320 voti.

"Peccato, proprio adesso che cominciava a crescere l'orto in via Tuscolana", è il commento della moglie, la signora Ida. Quella sera stessa la coppia raggiunge il Quirinale, che da quel momento in poi diventa la residenza ufficiale del presidente della Repubblica italiana.

Poi toccherà a Giovanni Gronchi.

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