24 GENNAIO
Ore decisive. Le porte del Nazareno si aprono martedì per l'incontro finale sul Quirinale di Matteo Renzi (nella doppia veste di premier e segretario del partito di maggioranza), con Silvio Berlusconi e con tutte le altre forze, da Area Popolare a Sel, dalla Lega agli altri partiti minori. I grillini intanto si tengono ben distanti dalla corte, stanno attenti a non mischiarsi e bocciano la trattativa al Nazareno. E' vero che in queste ore c'è un nome più forte di altri, quello di Walter Veltroni. Ma come sempre, quando si parla di Quirinale, tutto può cambiare da un momento all'altro. Renzi lunedì incontrerà deputati e senatori Pd ed è ovvio che prima di allora debba essersi fatto un quadro chiaro della altrui disponibilità a convergere su un nome Pd. Il rischio di una spaccatura è concreto e forte, decisivo il confronto con Pierluigi Bersani, riconosciuto leader delle minoranze. Ma sul nome del fondatore del Partito Democratico già si sa che potrebbe accendersi il semaforo verde di Forza Italia e degli Area Popolare.
Lo stesso Angelino Alfano, dopo aver avanzato nei giorni scorsi insieme al Cav i nomi di Giuliano Amato e Pierferdinando Casini, ha ammesso che sarebbe un atto di presunzione e di arroganza non dare al Pd, partito di maggioranza relativa con 460 grandi elettori, il diritto di avanzare un suo nome, purché condiviso. Ma il problema per Renzi è ottenere la garanzia del Pd che non si dividerà, a maggior ragione se la carta da mettere sul tavolo è quella del fondatore del Partito Democratico (che ha un 'grande elettore' d'eccezione in Gianni Letta, ovviamente non computabile tra quelli che parteciperanno al voto del Parlamento, ma assai ascoltato da Berlusconi). Si continua a parlare anche di Anna Finocchiaro, Graziano Delrio, Paolo Gentiloni e spunta il nome di Francesco Rutelli.
E c'è chi dà ancora in pista il ministro Padoan. Tutte ipotesi che potrebbero essere spinte in alto dalle divisioni sul nome dell'ex segretario Pd. Avere l'intesa fin dalla prima votazione sarebbe il sogno del premier e sgombrerebbe il campo da possibili 'agguati', ma servono 672 voti ed è un esito altamente improbabile (del resto l'elezione al primo colpo si è realizzata solo due volte, in casi di emergenza democratica per il Paese, con Cossiga e Ciampi). Ma non chiudere al quarto voto, quello dove la maggioranza richiesta si abbassa a 505 grandi elettori (una cinquantina in più di quelli che il Pd ha da solo, sulla carta) sarebbe un colpo d'immagine durissimo per il Pd e per lo stesso premier, indiscusso kingmaker della partita. Sarebbe la dimostrazione plastica di un partito spaccato e incapace di unirsi su un suo candidato, un modo di replicare lo scandaloso spettacolo del 2013, quando 101 franchi tiratori Pd affossarono Romano Prodi un attimo dopo averlo acclamato. Renzi non può permetterselo, per questo lavora in queste ore a blindare un accordo, prima di tutto tra le sue riottose minoranze e poi con il resto del Parlamento.